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Cunticerhi di Badolato

In questa sezione riportiamo alcuni detti e racconti su Badolato. Se vuoi inserireun detto o un racconto scrivi a fausto74@yahoo.it .

I Fantasmi di Badolato


Pubblicata in data 22/5/2005

Dopo pranzo ero stato io a fissare la meta: Badolato, o meglio, finalmente Badolato. Lo avevo programmato per anni, suggerito da una mia cugina che ne era rimasta affascinata, pronta com'e' a esaltarsi per qualunque bruttura, purche' antica e locale.
Finalmente Badolato perche' meta breve consigliavano le poche ore di luce che offriva quel pomeriggio del 17 settembre e la vicinanza con Montepaone Lido, dove quella stessa sera la figlia poco piu' che quindicenne di Sebastiano, amico e fratello, avrebbe sfilato, forte dei consigli e del tifo dei parenti accorsi numerosi, per battere le altre 59 finaliste al titolo di "un volto nuovo per il cinema", davanti a una giuria presieduta da Zeffirelli.

Mario, al mio fianco, si e' sfregato le mani, come e' solito fare inconsciamente nei momenti spensierati.

Dietro, i bambini scherzavano rumorosi, agitando ogni tanto le braccia all'indirizzo delle nostre mogli sull'altra macchina.

Anch'io mi sarei sfregato le mani, se pure per me quello fosse stato un gesto che celebrava la serenita' dell'animo.

Badolato finalmente.

Da lontano, un antico borgo umbro, come Baschi, accucciato sulla collina, con le case degradanti e antiche, i coppi caparbiamente mantenuti, i vicoli stretti e bui da cui si dipartivano alte costruzioni in pietra e calce, con portali a incorniciare portoni disfatti dal tempo e dall'incuria.

Percorrevamo le stradine attenti a cogliere l'antico conservato, una rarita' da noi. Rispondevamo al saluto dei pochi abitanti. Spiavamo dentro gli usci aperti, salivamo con lo sguardo le rustiche scalette d'accesso alle case.

Scrutavamo gli abitanti seduti sui gradini, intenti a chiacchierare tra loro o alla piccola animazione della via. Non avevano sul volto l'indifferenza dell'abituale. Incuriositi, ci seguivano con lo sguardo.

Dentro una bottega di barbiere un grande specchio rovinato agli angoli ci restituiva l'unica sedia antiquata e deserta. Il barbiere era poco discosto, intento a un tavolo appoggiato alla parete di fronte. Rigirava la stoffa di un vestito, armeggiando con il gessetto, con il ditale al dito e un ago trattenuto tra le labbra. Tutto attorno, gli strumenti dell'arte: la macchina da cucire, un cuscinetto per gli aghi appeso alla parete, il ferro da stiro, le stoffe nello scaffale. La terza parete chiariva definitivamente il doppio mestiere. Vi si alternavano impomatate chiome e lucenti pettinature su volti di giovani antichi, che mi ricordavano le foto ovali di mio padre ventenne, e piacenti modelle, che oggi avranno l'eta' di mia nonna, in vestiti tutti pieghe e fronzoli.

Lungo le vie, qua e la', i tocchi del cemento, che deturpava, sul lastricato dei vicoli, ma pure sulle facciate delle case, a sostenere i fili della comoda modernita' o a saldare una lesione.

Io spiegavo le poche cose di cui ero certo, da ingegnere cresciuto al soldo del cemento armato: i buchi sulle facciate occorsi ai mastri per realizzare il ponteggio di sostegno, le case sventrate per non gravare i muri lesionati.

I bambini ci giocavano davanti, pronti a emularci nell'esclamazione alla bellezza.

La gente era un tutt'uno con il paesaggio, tanto vera che sembrava falsa, come messa li' apposta dalla Pro Loco locale a esibire la perfetta simbiosi con le cose, nei capelli delle donne con le coroncine a treccia, nel canestro di giunco tenuto in bilico sulla testa col supporto di una corona di pezza, nelle camicie degli uomini bianche, inamidate e abbottonate ai polsi, nelle chiacchiere delle commari sedute sull'uscio di casa, intente ad armeggiare sui ferri e con lo stesso sorriso dolce e cerimonioso delle nostre nonne.

Piu' d'uno, nonostante il caldo ancora estivo, indossava la maglia interna di lana, come ho sempre visto fare a mio suocero, farmacista, giorno e notte, estate e inverno. E mi meravigliavo come ne potesse sopportare contatto e calore, mentre io sudavo e affannavo nella mia camicia di cotone.

Veniva della musica dai vicoli, pastorali al ritmo di tarantella naturalmente.

Ma qualcosa mancava, che non riuscivo a cogliere.

Poi capii: gli animali, asini e muli, le loro stalle e i fetori, e gli escrementi lungo le vie lastricate. Proprio non c'erano.

In compenso, le macchine. Entravano appena in quelle viuzze tutte ripidi saliscendi, transitando una per volta, come per preciso accordo sancito da semaforo che non c'era. Stonavano tra le sacre crepe del vecchio cosi' incomprensibilmente mantenuto.

Le case dei ricchi conservavano ancora traccia degli antichi fregi. Erano impreziosite da colonne con capitelli e da massicci portoni, con soprastanti ovali a raggiera in ferro battuto, incorniciati in portali di pietra spesso interrotti, al centro dell'arco, da uno stemma gentilizio. Quelle dei poveri erano semplici, e belle di una sana modestia contadina.

Entrambe pero' convivevano, fronteggiandosi, o offrendosi il fianco.

Passandoci davanti, pensavo al divieto dell'utilizzo del muro adiacente che certo doveva aver subi'to il povero, costretto cosi' a farsi il suo, inutile sperpero di uno spazio gia' esiguo. E immaginavo il ricco storcere il muso alle vergogne dell'indesiderato vicino, e i rimproveri a un vivere piu' civile.

Mi sorprendeva tanta conservazione, come mi aveva sorpreso quella della non lontana Gerace. Mi sorprendeva perche' in quei volti, nelle pose delle commari sulla sediolina di corda, negli abbigliamenti, nel cortese e antiquato saluto dell'incontrarsi anche estranei, nell'accompagnare curioso i nostri passi riconoscevo la mia gente, quella stessa che aveva fatto del mio paese lo scempio che e’ diventato, e tutto negli ultimi trent'anni: un cumulo multicolore e inguardabile di rattoppi, lamiere e cemento.

Non mi capacitavo del perche' la' non fosse successo.

Lo abbiamo percorso tutto il borgo, tagliandolo in due attraverso la via principale, il Corso Umberto I, una stradella non piu' larga di due metri e mezzo dove a stento passa una macchina e dove anche gli asini dei miei ricordi, con i cofani laterali caracollanti e colmi dei beni degli orti, avevano dovuto darsi il passo.

Abbiamo percorso delle viuzze ripidissime. Scendendole, io pensavo al ritorno e al mio fisico poco allenato per quelle discese che sarebbero diventate pesanti salite, contento ora del lastricato di cemento rigato che copriva le lucide, irregolari e scivolose pietre del selciato.

Ci dirigevamo verso una chiesa che chiudeva l'abitato degradando su una collinetta delimitata da due profondi costoni. Era discosta dalle ultime case, separata da queste da una lunga e ampia scalinata in taglio di pietre di fiume infisse nel terreno a formare larghi scalini dalla pedata variabile, che costringevano noi uomini sempre allo stesso piede, certo cavalleresca concessione al passo femminile, che, piu' corto, invece alternava l'alzata.

Un giovane alto e magro, rattrappito nei lineamenti di un volto malaticcio, ci ha rivelato i recenti acquisti di decine di quelle abitazioni da parte di forestieri.

"Svizzeri di Berna" ha detto, a bocca piena e quasi sillabando, dopo aver inspirato forte dal naso, alzato il capo facendo perno sulla nuca, inarcato le sopracciglia e increspato il mento, a indicare meraviglia e previsione di stupire.

Tutto era successo, ci ha spiegato, dopo un servizio della Rai, che avevo visto anch'io, "un paese in vendita". Loro, i locali, si erano lamentati dell'esodo della popolazione, che preferiva il nuovo al mare, poco piu' in la', e della noncuranza dello Stato che non concedeva finanziamenti per preservare.

Ci indicava le case acquistate, come le avevano adattate a un vivere migliore senza mutarne le facciate ed eliminando le aggiunte del cemento.

Mentre parlava, io gli leggevo l'orgoglio dell'appartenere a un borgo che attirava i turisti, anche se forse non si capacitava come potessero farlo proprio i loro disagi, muri vecchi e umidi, coperture in coppi che non impedivano l'acqua e vie insidiose e impraticabili, tanto ripide da mortificare il cumulo degli anni.

In verita' anche io coglievo dentro di me parte di quelle sue perplessita'.

Fu un suo parente la nostra guida alla chiesa.

Percorrendo la scala in pietra sul crinale tra i due costoni, ammiravamo quell'ultima costruzione che chiudeva l'abitato, con sullo sfondo, di fronte a noi che avanzavamo, il mare Ionio, poco lontano, meno di due chilometri in linea d'aria e di cinque di asfalto, impedito a tratti dagli alti palazzi del cemento armato.

Scendendo, era come vivere due tempi, l'immutabile e il frenetico, impossibili assieme, eppure li', entrambi presenti nel silenzio fatto di silenzi e rumori antichi delle case del borgo e nell'affannata vita che intravedevamo all'orizzonte, tra il luccichio delle macchine inquadrate per un attimo dal sole sulla mortale statale 106 e i fastidi del moderno che immaginavo tra vie agitate dalla fretta e dai calcoli dell'uomo.

Era bella, antica e maestosa la chiesa. Pure perfettamente inserita nel contesto, un tutt'uno, con i suoi tenui colori dell'imbrunire, con il brullo circostante, quella messe di grano mai avvenuta, come appariva la campagna attorno, dove il giallo del brullo rinsecchito dal sole ricordava la mietitura e serpeggianti sentieri discendevano il costone segnandolo di un pacato filo marrone.

Cosa coltivavano quei contadini che incontravamo per strada?

Avevano il viso tirato e sofferto del lavoro dei campi. Ma li', terra brulla e riarsa, nulla sembrava esserci da coltivare, non orti, non ulivi, radi e isolati, non il povero grano o le patate.

Eppure erano contadini. E insistevano a esserlo. Certo qualcosa coltivavano, il poco che consentiva quella secca plaga, forse piu' a monte. E le loro case, immutabili da generazioni, erano lo scontato epilogo di poverta' e miseria, in terra avversa, ma pur amata.

Cosi' mi spiegavo la conservazione. Gli anni del benessere non erano passati da li', non ancora, quegli anni sovvertitori che altrove, ovunque da noi, avevano trasformato piegandoci a modernita', vita comoda e cattivo gusto. Li' la miseria, benedetta miseria, tanto piu' sopportabile e apprezzabile perche' degli altri e non nostra, aveva conservato e mantenuto, per le orde da venire, da Berna o dall'Aspromonte, a portare anche li', in ritardo e alle generazioni successive, il benessere.

Sulla sinistra, giu' a valle, una casa a tre piani, bianca e lucente, che si stagliava, contrastante e unica nella sua modernita', sulle messi mai mietute la' attorno. Faceva parte del colpo d'occhio per chi percorreva la strada in macchina, con l'antico borgo in alto a meravigliare e questa ai piedi. Stonava. E certo da essa, per la magia dei luoghi, non emanava la civilta' che doveva inorgoglire i suoi abitanti.

Gli interni della chiesa non erano niente di eccezionale, una come tante, molto simile nelle navate a quella del mio paese.

Era l'esterno che colpiva e affascinava, in un armonioso colpo d'occhio con sullo sfondo il mare. Offriva mirabile vista per chi scendeva dall'alto, con un'assonometria che si apriva man mano nei particolari: le facciate pulite e semplici, il piccolo campanile e quel corpo a forma ottagonale, appena sporgente dal tetto, che ricordava la chiesetta di Stilo.

Visitati gli interni, ci siamo fermati a parlare sul piazzale. La nostra guida si e' detta d'accordo con me sulla necessita' di eliminare i rabberci in cemento della scalinata, ha condannato le poche vergogne dell'eternit giunto anche li' a sostituire i coppi e pure la casa che vedevamo dall'altra parte del costone. Ha poi apprezzato il lavoro dei giovani di Mondo X, che avevano risistemato lo spiazzo tutto intorno alla chiesa, e si e' rammaricato che non fosse stato possibile usare la calce come legante del muro in pietrame che lo delimitava.

Poi, ha rivolto lo sguardo verso il mare e ha condannato con lento e severo sbattito di testa i compaesani trasferitisi la', dentro i casermoni in cemento che scorgevamo.

Era orgoglioso del suo essere rimasto, uno dei settecento che garantivano la vita.

Mentre parlava, io osservavo quell'anomala guida vestita della solita maglietta di lana e di pantaloni di tarpa stretti in vita da una rustica cintura che gli accentuava il ventre. E mi sembrava piacevolmente sconvolgente che, fra i rimasti, compito e privilegio fossero toccati proprio a lui, cosi' ignaro di tutto e contadino fin dentro le piu' profonde visceri. Era inquietante ma genuino, la degna espressione di una civilta' contadina ancora intatta, irripetibile e da custodire gelosamente perche' provvisoria testimone del tempo, destinata a scomparire all'affacciarsi del benessere.

Risalendo quella scalinata, io, figlio di altro tempo, schiavo di un mestiere che distrugge i sogni per adeguarli alla logica dei numeri, ho presto rimosso l'aria irreale appena respirata, quell'angolo di antico che mi aveva coinvolto. E ho rivolto il pensiero alla fatica che era costata udir messa la mattina, con quella penitenza da affrontare al ritorno.

Poi mi sono concentrato sui miei passi, senza strafare, con un avanzare lento e uguale, perche' la discesa di prima era diventata dura salita, che affrontavo assieme a Mario, mentre le donne e i bimbi si erano avviati per aspettarci lungo la strada li' vicino.

Ansimavamo salendo. Sentivamo gli anni e la vita sedentaria. L'antico attorno non esisteva piu', concentrati come eravamo a testa bassa sul percorso, timorosi di alzare lo sguardo perche', impressionati dalla lunghezza e dalla pendenza, il morale avrebbe minato le gia' poche forze.

Ma, sottilmente, facevamo gareggiare i nostri pari anni. Mario parlava a volte, cercando di mascherare l'affanno, per dimostrare freschezza.

Io rispondevo a monosillabi, per risparmiare le forze, ma avanzavo, lento e costante, cogliendo con la coda dell'occhio Mario teso allo sforzo di affiancarmi e superarmi. E reagivo, riguadagnando breve distanza che lui ogni volta colmava.

Non era vera competizione, era la gioventu' che se ne andava: sentivamo che stava accadendo e ci opponevamo, per ingannare per primi noi stessi e illuderci, nella piccola ammirazione dell'altro per una fatica ben sopportata, che su noi gli anni non erano passati come sui nostri coetanei, ma piu' lenti e compiacenti.

Lungo un tratto pianeggiante abbiamo incontrato davvero gli svizzeri di Berna.

Per capirlo ci e' bastato guardarli da lontano. Salutavano tutti. Una bella coppia. Salutarono anche noi incrociandoci. E forse per loro pure noi fummo un pezzo di antico, degli immutabili con le stesse facce antiche degli abitanti.

L'idea che potessimo essere apparsi tali mi ha ferito.

Appena fuori dal vicolo, lo spiazzo grande dove avevamo lasciato le macchine. C'era cemento ovunque, come messo li' apposta per riportare subito e senza fronzoli alla realta'. Sulla strada del ritorno ho chiesto ai bambini se era loro piaciuta la gita. Solo Andrea, il mio piccolo, di quattro anni e mezzo, ha risposto di no: "perche' ci vivevano i fantasmi".

E in fondo era proprio cosi'. Li' c'era gente irreale e incomprensibile, ancorata alla miseria, in case umide e in rovina, anguste e maleodoranti, le stesse dei loro padri, dei loro nonni e dei padri dei loro nonni. Non capivano come i disagi potessero attrarre, non erano pronti a cogliere il nuovo: davvero fantasmi, incomprensibili testimoni di un tempo che si e' fermato, ignari tramandatori del passato.

Erano rimasti per paura di un confine vicino ma ignoto, la', al breve orizzonte, o perche' i piu' poveri, di averi e sentimento, non pronti a mutar pelle e costumi.

Altri, i piu', avevano visto troppo vicino il mare e invitanti terre pianeggianti per potervi resistere. Se ne erano andati, lasciandosi dietro vecchi vinti dalle radici e dall'abitudine.

Erano rimasti i fantasmi, aveva ragione Andrea.

Rientrando facevo finta di dormire, per mettere meglio a fuoco quei pensieri. Guidava Stefania, i miei occhi della notte.

Perche' ci ha colpito Badolato?

E' soltanto un vecchio borgo, grondante di miseria e disparita' sociale, come tutti i nostri paesi fino agli anni '50.

Perche' la gente vi si reca ammirata?

Non trova monumenti, ne' opere d'arte, ma solo il segno del passato, neanche tanto lontano, che gia' conosce, per averlo vissuto o per averlo sentito nella generazione appena precedente.

Forse va a rivedersi com'era, per non ricaderci, perche' sia un monito che il benessere non offuschi?

Anch'io ne sono rimasto affascinato. Eppure ne ho demolite tante di case come quelle nella mia professione, senza pensieri, ne' rimpianti, la giusta fine che tocca al rudere, per rendere la vita piu' comoda.

Preferisco pensare che a me sia successo perche' mi ha ricordato l'infanzia, lo stesso selciato che percorrevo tra i cacoccioli delle capre, con il pericolo dei vecchi coppi che il vento di levante faceva volare via, o l'uguale vista di palazzi dentro i quali era privilegio essere ammessi.

Si', ho frenato per un po' il tempo e mi sono illuso di essere bambino mentre aspettavo che mio padre uscisse dall'ufficio postale per perdere la mia piccola mano dentro la sua e sciogliermi nel suo misurato sorriso.

Poi ho pensato che avevo scordato Montepaone e il concorso di bellezza, e che avrei dovuto nascondere a Sebastiano che ero arrivato a una diecina di chilometri ed ero tornato indietro. Non avrebbe capito lui, intento com'era a inseguire, per sua figlia, la maggiore soddisfazione che poteva offrirle la vita, piu' di cento lauree o di un buon matrimonio.

L'ultimo pensiero, prima di prendere sonno, davvero e' stato per quel maledetto cemento dei viadotti della superstrada che percorrevamo sotto la pioggia.

Maledetto cemento di un mestiere che toglie fiato al sentimento.

17 settembre 1994

di Domenico Gangemi

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