Pubblicata in data : 15/10/2004
Periodo storico : Anni '50
"A Badolato il problema lavoro era un problema di fondo. I reduci e combattenti, i lavoratori dell’edilizia e anche i braccianti agricoli non trovavano possibilità di lavoro. La disoccupazione era elevatissima. Di fronte a questa grave situazione il P.C.I., il P.S.I. e la Camera del Lavoro comunemente e concordemente hanno deciso di chiamare i disoccupati alla lotta per il lavoro. Si sono fatte decine e decine di riunioni di quartiere e di caseggiato per convincere i disoccupati e tutta la popolazione di aderire alla grande battaglia per il lavoro."
Questa la parte iniziale del promemoria con cui Giuseppe Samà ha aderito alla nostra richiesta di scrivere dello sciopero a rovescio che alla fine del 1950, in un clima di esaltante e pacifica lotta socio-politica, ha mobilitato la popolazione badolatese. In tali parole la vera e più che bastevole motivazione del movimento di massa, che ancora una volta poneva Badolato all’attenzione, non certo benevola, delle Istituzioni, anche nazionali, e quindi dei mezzi d’informazione, sulla scia della lotta clandestina antifascista durante il Ventennio, e in sintonia con le non infrequenti mobilitazioni di contadini e di operai nell’immediato dopoguerra.
Le lotte operaie per il lavoro e per la conquista dei diritti civili e sindacali non sono, ovviamente, prerogativa di Badolato, ma questo piccolo paese del profondo Sud d’Italia e d’Europa ha certamente dato un notevole contributo alla lotta delle masse oppresse ed affamate.
È piuttosto vasta la letteratura meridionale riguardante le manifestazioni, i movimenti, le lotte della fine degli anni Quaranta di questo secolo, anche al di fuori degli episodi cruenti di Portella della Ginestra e di Melissa (30 ottobre 1949). E non sono pochi gli scioperi a rovescio realizzati in Calabria negli anni 1948, 1949, 1950. Di uno di questi, realizzato da 34 operai in Francavilla Marittima (CS) e conclusosi nel giro di due giorni (21 e 22 aprile 1950), scrive Giuseppe Grisolia in Lotte per la terra a Cassano Jonio dalla Rivoluzione di Masaniello ai nostri giorni. Un altro, durato solo tre giorni, è stato fatto a Caraffa (CZ), con lo scopo di collegare l’abitato alla vicina Sarrottino. E ancora altri, in tutt’e tre le province calabresi, come leggiamo in Magistratura e conflitto sociale nella Calabria del Dopoguerra, di Umberto Ursetta (Pellegrini-Cosenza, 1997). Il denominatore comune è -ovviamente- il lavoro. Il lavoro, difatti, chiedevano i reduci, ma anche quelli che la guerra l’avevano vista di passaggio, e che, per motivi vari, non avevano ancora ceduto alle lusinghe dell’espatrio per l’America del Sud, o, se in condizionati più fortunate, per l’America del Nord. Il lavoro quale strumento di riscatto non solo dalla fame, giacché non si può dire che a Badolato fossero in tanti a fare proprio la fame. Il lavoro quale mezzo di crescita sociale, culturale, civile. Lo slogan più comune in quegli anni era, appunto, "pana, lavùru e allìvi a mmitati" (pane, lavoro e olive a metà con il padrone). Ma il lavoro non c’è! Volevamo dire, alla Manzoni, che non c’era, allora. Oggi, invece… D’altra parte, l’obiettivo della globalizzazione, e del capitale che la vuole e la guida, non è certo produrre lavoro! È, invece, produrre altro capitale, anche con il lavoro se non è proprio possibile in maniera più comoda, più economica, meno rischiosa.
Così, nell’autunno del 1950, il grande Anno Santo della Chiesa Cattolica di Papa Pacelli, che aveva scomunicato i Comunisti, i dirigenti del Partito Comunista di Badolato, "comunemente e concordemente", con il beneplacito dei dirigenti della Federazione provinciale rappresentata nel Comprensorio dal responsabile di zona, l’andreolese Bruno Genco, con il consenso di tutta (o quasi) la popolazione, decisero di creare lavoro mettendo mano alla realizzazione di un vecchio progetto che, secondo qualcuno, risalirebbe al tempo di Gioacchino Murat: collegare, mediante una strada carrozzabile ed ampliando il viottolo comunale esistente, Badolato, e quindi anche lo Ionio e la SS 106, con la propria montagna, e con Brognaturo. E quindi con il Mar Tirreno attraverso la via più breve delle Serre. Rendere percorribile dagli autoveicoli, in altre parole, la plurimillenaria strada che collegava i due mari che da sempre bagnano quest’antica terra. Ci sarebbe stato lavoro per tutti! E finalmente si sarebbe rotto l’isolamento di queste nostre contrade collinari, con prospettive di possibile coltivazione di tutti i terreni interessati al passaggio della strada, e di sviluppo di attività commerciali mediante la rapida via di comunicazione e di trasporto, dallo Ionio all’Appennino e al Tirreno, e viceversa.
L’idea della grande manifestazione di massa, provocatoriamente finalizzata a far eventualmente accettare il fatto compiuto agl’insensibili rappresentanti delle Istituzioni, era stata probabilmente di mastro Domenico Corea, esponente di spicco del movimento clandestino antifascista prima, e poi Segretario della locale Sezione del P.C.I. All’epoca dello sciopero, però, segretario era Domenico Schiavone. La cosa fu lungamente discussa con i dirigenti delle sette cellule in cui era diviso il paese, con la partecipazione attiva di tutti i dirigenti del Partito e di numerose altre persone che ne erano in parte l’anima. Noi, convinti di rischiare grosso, scegliamo di scrivere qui di seguito i nomi di quei dirigenti e di quelle altre persone, con la speranza che nessuno ce ne vorrà se qualche nome sarà dimenticato. Ricordiamo, quindi: Carmelina Amato, Vincenzo Andreacchio, Vincenzo Battaglia, Paolo e Pasquale Bressi, Antonio Domenico e Nicola Corea, Giuseppe Criniti, Nicola Criniti, Vincenzo Criniti, Domenico Schiavone (segretario, come dicevamo), Fortunato Epifani, Domenico Femia, Antonio Garretta (sindacalista), Tommaso Guarna, Antonio Larocca, Andrea Lentini, Salvatore Piroso Salvati, Pasquale Procopio (nel 1953 frequenterà l’"Università Comunista" di Roma, insieme a Giuseppe Criniti), Giuseppe Samà (che fequenterà poi la Scuola Sindacale in Bologna, e sarà Segretario provinciale del Sindacato braccianti agricoli), Pasquale e Vincenzo Samà, Antonio Schiavone, Andrea Talotta (vicesindaco all’epoca, subentrante a Nicola Corea), Luigi Tropeano (sindaco), Antonio e Stefano Verdiglione. Più difficile è riportare i nomi -molto più numerosi- dei Badolatesi che in quel periodo e in quell’occasione, pur senza avere responsabilità organizzative e di partito, contribuivano a costituirne in buona parte l’ossatura. Ed ecco dei nomi (alcuni erano giovanissimi), perché non se ne perda la memoria: Giuseppe Andreacchio, Rosa Badolato, Nicola Bressi, Vincenzo Caporale, Giuseppe e Pietro Cossari, Carmela Ermocida, Concetta Peronace, Domenico Gallelli, Silvia Gallelli, Teresina Guarna, Rosa Larocca , Antonio Mantella, Pasquale Menniti, Totò Menniti (di Matteo), Giovanni Piperissa, Rosarina Procopio, Domenico e Giuseppe e Leopoldo Repice, Anna Domenica Giovanna e Maria Samà, Caterina e Vittoria Serrao, Vincenzo e Vittorio Schiavone, Vittoria Spinzia, Maria Tirabosco, Rina Trovato, Pietro Varano. Antonio Valenti.
E veniamo allo sciopero, che costituirà per sempre uno degli episodi più importanti della storia di Badolato.
Il progetto, regolarmente approvato dal Comune, e quindi anche pagato, è stato fatto dal giovanissimo geometra Angelo Vincenzo Anoja, aiutato, per l’occasione, dall’amico geometra di Guardavalle Peppinuzzo Menniti; lo strumento per i rilievi se lo sono fatto prestare dal geometra Riccio, di Santa Caterina. La direzione dei lavori…era di tutti: il geometra si recava sul posto all’occorrenza.
All’alba del 13 ottobre, per appuntamento annunciato in ogni angolo del paese dalla tromba del banditore pubblico di quel periodo, sono accorsi in piazza Fosso almeno quattrocento persone. Ognuno portava in spalla un arnese: la zappa, il piccone, la scure, la roncola, la pala. Tutti contenti di poter dare il contributo ad una giusta causa. Tutti con la speranza di ottenere l’approvazione delle Autorità, e quindi il relativo salario per il lavoro che si annunciava lungo e non senza problemi. E via, cantando Bandiera rossa, verso Giambartolo, dove , arrivati in pochi minuti, si cominciò a picconare, a spalare, a tagliare alberi: unica energia quella delle braccia di una folla determinata.
C’erano i ragazzi -alcune decine- che non si limitavano a far numero, comunque necessario, in generale, e particolarmente in alcune occasioni in cui la massa se proprio non detta legge incute rispetto o almeno prudenza. Ma si davano da fare anche loro, i più grandicelli con pala e piccone, i più piccoli a portar messaggi, a sbrigare commissioni, a spostare attrezzi, a distribuire acqua ai lavoranti.
C’erano anche tantissime donne che, se proprio non sudavano manovrando la roncola o il badile, trasportavano viveri e carichi vari sulla testa. E attingevano alla vicina sorgente acqua, da bere e per la preparazione del pranzo, poiché s’era deciso che a mezzogiorno fosse distribuito a tutti un pasto caldo, per rifarsi delle energie che si andavano spendendo, per riposarsi nel frattempo e per "rianimarsi" bevendo in compagnia qualche bicchiere di vino buono, che non mancava. Le cinque caldaie per la cottura del cibo (pasta e patate, pasta e fagioli, ecc.) erano addossate al muro esterno del casino di Giambartolo, che fungeva da quartiere generale, e che tanto ricordava l’allora recente episodio in cui era stato postazione di una batteria di Artiglieria italiana comandata da un capitano che aveva osato sbarrare il passo ai carri armati angloamericani del generale Walter Bedell Smith, il 9 settembre del 1943, mentre risalivano lo Stivale provenienti dalla Sicilia. Un tale ricordo s’è rivelato particolarmente obbligato il giorno in cui nel fuoco sotto a una delle caldaie è scoppiato un proiettile -chiaro residuo bellico- che andò a conficcarsi in una gamba di Rosa Badolato, tra le donne più attive del "campo", che faceva la cuoca (insieme a Domenico Gallelli, Pasquale Menniti, Salvatore Piroso Salvati). Ad evitare che l’episodio, divenendo di dominio pubblico, potesse richiamare sul posto i Carabinieri e costituisse, quindi, ulteriore e forte motivo d’intervento delle Istituzioni, fu chiamato a Giambartolo un medico del luogo (non erano tanti i medici badolatesi nel 1950: Tommaso Spasari era morto nel 1943, e Antonio Tropeano era morto l’anno prima, nel 1949): Rosa Badolato fu curata in loco, e non fu redatto alcun verbale.
C’erano l’"òmani", soprattutto contadini-piccoli proprietari e contadini-braccianti agricoli, e forse tutti i poco numerosi manovali del paese. Costituivano il fulcro della massa scioperante, e a loro spettava il potere decisionale continuo, istante per istante, e il lavoro muscolare più gravoso. Tanti di loro avevano al seguito più di un attrezzo di lavoro. Alcuni portavano delle grosse funi, necessarie per sradicare, con la forza delle braccia, i secolari ulivi che ricadevano sul tracciato della strada. Fu notato un diciottenne giovane universitario che incitava gli operai a svellere qualche ulivo rimasto al suo posto nel podere del padre, inizialmente non disponibile a subire il danno. Tre soli proprietari, in verità, risultano essersi opposti all’abbattimento di alberi ricadenti nel proprio terreno; ma l’opposizione con l’andar dei giorni si è trasformata in consenso, tacito od espresso. D’altra parte nessuno aveva l’ardire di misconoscere il vantaggio che sarebbe derivato dalla realizzazione di tale via di comunicazione. Non risulta, ad esempio, che il barone Gallelli si sia in qualche modo lamentato dell’illecita occupazione di terreno per la realizzazione della sede stradale, o dell’uso della casa di campagna di Giambartolo, che all’epoca non era ancora cadente. Alcuni tra gli scioperanti non erano adusi a pala e piccone (Peppino Ugo, ad esempio, era noleggiatore, e Guerino Nisticò era macellaio): venivano quindi impiegati a fare i capisquadra, o ad altra funzione di tipo logistico; altri capisquadra erano Vincenzo Larocca, Andrea Lentini, Peppino Parretta, Antonio Schiavone. A sera ogni caposquadra scriveva sur un biglietto i nomi dei presenti del giorno, e l’incaricato, Giuseppe Samà, ne faceva tanto scrupolosa quanto opportuna trascrizione sur un quaderno-registro, che negli anni successivi è andato smarrito (Quasi sempre così qui da noi!).
Non tutta la popolazione attiva di Badolato, però, ha messo in spalla gli attrezzi di lavoro per partecipare a quella grande esperienza popolare. Alcuni erano contrari, per motivi vari ed anche immaginabili. Altri, pur condividendo la protesta, non hanno inteso esporsi, magari per motivi di politica partitica. Altri ancora (professionisti, impiegati, commercianti, artigiani) perché non adatti al lavoro manuale. Tantissimi, però, tra i non partecipanti, vi aderirono idealmente o/e contribuendo con generi alimentari, dalla pasta all’olio, dal pane al vino, dai fagioli alle patate. Persino da Pietracupa sono arrivate delle patate per gli scioperanti, colà raccolte da Vincenzo Paparo e Pasquale Samà che allo scopo vi si sono recati.
Ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, i principali protagonisti di quell’esaltante avventura (quelli che sono ancora vivi e la cui memoria non vacilla), quasi tutti appartenuti al P.C.I., s’affannano a precisare che non è stato un fatto di Partito, ma di Popolo. È vero?! Noi non lo sappiamo, e non vogliamo saperlo, anche perché non ci siamo mai assunti compiti del genere. Ma è pur vero, in ogni caso, che in quegli anni il Partito Comunista otteneva in Badolato intorno al 65% dei voti nelle competizioni elettorali. Per non dire, inoltre, di centinaia di giovani, non compresi in tale percentuale perché di età inferiore a ventuno anni (allora non si votava ancora a diciotto anni), quasi tutti affascinati dal credo comunista, per motivi storico-economici peraltro facilmente analizzabili.
E l’Esecutivo? E le Forze dell’Ordine? Non siamo in grado, purtroppo, di fornire dettagli sulla reazione dei Poteri dello Stato, anche perché ci viene spesso negato l’accesso a taluni archivi. Ma sappiamo, dal resoconto di numerosi Badolatesi, anche non protagonisti, che all’iniziativa popolare, ovviamente osteggiabile, c’è stata una reazione piuttosto dura, quasi da braccio di ferro, sia da parte delle Autorità provinciali che dal maresciallo comandante la locale stazione dei Carabinieri. A centinaia sono arrivati in paese i poliziotti, e in piazza Fosso è stata installata una stazione radiotrasmittente, in collegamento -dicono ancora oggi alcuni- con il Ministero dell’Interno. Le forze dell’ordine avevano il controllo del territorio, ma gli scioperanti eludevano facilmente la vigilanza e si presentavano puntualmente al lavoro. Totò Verdiglione -ci viene raccontato- si è finto "ciucciàru", ed ha camminato in mezzo ad alcuni asini che portavano il mosto, per non farsi fermare dai carabinieri a un posto di blocco.
Ma non si è mai arrivati allo scontro frontale tra scioperanti e tutori dell’ordine pubblico, anche perché nei momenti cruciali scattava una sorta di "sicurezza", consistente in una specie di cuscinetto che si frapponeva tra polizia e operai: le donne e i ragazzi invadevano all’occorrenza il "campo" impedendo di fatto il contatto tra gli schieramenti "opposti". È anche molto probabile che a livello provinciale più di una Autorità politica si sia data da fare perché la tensione non raggiungesse certi livelli. Piuttosto numerosi, difatti, sono stati gli uomini politici, di sinistra, arrivati a Badolato per portare alla popolazione in lotta la loro solidarietà e il loro sostegno: si ricordano Giovanni Di Stefano (segretario provinciale del P.C.I., bolognese), l’avvocato Bruno Dominijanni, Iannone, l’avvocato Lamanna, l’ingegnere Gennaro Miceli, Pasquale Poerio non ancora deputato, Giovanni Riga, il sindacalista Silipo. Si è fatta viva anche l’Autorità provinciale di Governo, nella persona di un alto funzionario delle Prefettura, che destituì il Sindaco Tropeano, sostituendolo e insediandosi quale Commissario Prefettizio. È stato, quello, il momento più pericoloso di quella storica esperienza popolare. Ala notizia dell’insediamento del Commissario, gli scioperanti lasciarono il lavoro e marciarono, arnesi in spalla, verso il Municipio, dove Vincenzo Andreacchio e Giuseppe Samà pronunciarono decisi discorsi contro il provvedimento prefettizio. Tutto il popolo invocava a gran voce la revoca del provvedimento e la restituzione del Sindaco alle sue funzioni. Cosa che avvenne immediatamente, per motivi che possiamo immaginare, probabilmente ovvii.
Non è fuori luogo, a questo punto della ricostruzione, riportare il profilo che il comandante la stazione dei carabinieri di Badolato ha tracciato in quell’occasione di Vincenzo Andreacchio e di Giuseppe Samà: "Per la personalità dell’Andreacchio è da rilevare che costui è il prototipo del professionista della politica per la politica, acceso propagandista di idee estremiste, per cui la persona, fisicamente segalina, indica, con la pallidezza del suo viso, con la vellosità del suo petto, con i suoi occhi a mandorla, con i suoi capelli lunghi al vento, l’agitatore perfetto di masse, onde la sua presenza fra gli operai disoccupati è continuo alimento ed incitamento a deviare da ciò che può essere di corretto e di sano buon vivere nel rispetto delle leggi che ci governano tutti. La sua persona, dunque, è in Badolato un potenziale pericolo, poiché gli operai, specie quelli più arrendevoli e meno dotati di intelligenza, credono ciecamente a ciò che egli loro dice. Da ciò discende la logica conseguenza che se l’Andreacchio in un domani, che potrebbe essere anche prossimo, volesse disporre della forza bruta della massa amorfa e acefala, per il soddisfacimento delle sue libidini politiche, non è azzardato prevedere degli incidenti, anche gravi in questo centro abitato. Cosa che lo scrivente è riuscito finora ad evitare, mercé la sua attività spiegata ininterrottamente per la distensione degli animi."
Ed ecco il profilo di Giuseppe Samà: "Costui è sempre presente in tutte le manifestazioni che si tengono in questo centro abitato. Si ha quasi l’impressione, a chi ben l’osserva, quando è in mezzo alla massa, che egli si compiaccia molto dell’attenzione che tutti a lui rivolgono. Il Samà è il caratteristico tipo di quelli che si fanno trascinare dalla massa, per cui sarebbe capace anche di incitare alla rivolta qualora ‘sentisse’ di essere ‘padrone’ della massa stessa.
La sua figura fisica, insignificante e poco appariscente, forse è la sua stessa forza. Il suo modo di parlare, le sue facoltà intellettuali di ben scarsa consistenza, ingannerebbe chiunque l’osservasse una sola volta, ma il Samà possiede in sé un ‘quid’ che lo rende pericoloso per sé e per gli altri. Le sue estremistiche idee politiche lo portano a guardare le cose che lo circondano, non già sotto la visuale moderata e giusta di ogni essere ben nato, ma sotto una luce violacea, per cui il suo animo è portato a considerare il problema della vita individuale e collettiva sotto un triste e tristo indirizzo." (Rapporto n° 137 dei carabinieri di Badolato del 5 dicembre 1950, tratto dall’opera citata di Umberto Ursetta).
Altro momento carico di tensione si è determinato con l’arresto dei "Capi", già nella fase iniziale dello sciopero. In piena notte, verso le ore tre del mattino, sono stati arrestati nelle loro abitazioni tredici dirigenti, ritenuti responsabili di sobillazione delle masse; si ricordano, però, solo sei nomi: Giuseppe Criniti, Salvatore Piroso Salvati, Giuseppe e Vincenzo Samà, Mimì Schiavone. Nel suo domicilio di Catanzaro è stato arrestato anche l’avvocato Luigi Tropeano. Sparsasi nottetempo la notizia, i Badolatesi, chiamati a raccolta dalla solita tromba "do bendéri", accorsero in massa in piazza Fosso con la programmata intenzione di opporre alle Forze dell’Ordine uno scudo umano, formato in avanguardia da donne e da ragazzi, in modo da impedire il trasferimento degli arrestati, a qualunque costo, magari sdraiandosi a centinaia sulla sede stradale: chi avrebbe avuto l’ardire di condurre le automobili sur un così strano tappeto?! Ma le vetture, con i rei, erano ormai partite: pochi minuti di ritardo sono bastati per evitare uno scontro frontale dalle imprevedibili conseguenze. Tradotti al carcere di San Giovanni, nel capoluogo di provincia, i sei vi sono rimasti per qualche settimana. Al processo, difesi dagli avvocati Giuseppe Seta e Bruno Dominijanni, sono stati assolti per insufficienza di prove. Giuseppe Samà subì più tardi un secondo arresto, insieme a Umberto Battaglia che in quel tempo era collocatore comunale, e che pare sia stato arrestato per errore dovuto all’omonimia con l’esponente comunista Vincenzo Battaglia: due o tre giorni al San Giovanni, in Catanzaro, e poi a casa.
Mentre erano in carcere i "Capi" sarebbe arrivato in paese anche il Prefetto di Catanzaro, col pacifico intento di convincere tutti a tornarsene a casa, anche in considerazione che lo Stato non avrebbe comunque pagato quelle giornate di lavoro: avrebbe offerto la somma di trecentomila lire da dividersi tra gli scioperanti, a condizione di far immediato rientro a casa. Ma gli scioperanti non mollarono. Il focolaio si estese, anzi, a Guardavalle, dove si recarono Nicola Criniti, Antonio Larocca e Giuseppe Samà, per dare appoggio e solidarietà agli scioperanti guardavallesi che lavoraravano per realizzare la strada che dal capoluogo avrebbe dovuto portare a Pietracupa. Lo sciopero di Guardavalle, promosso e guidato da Antonio Guido e da Pasquale Gregorace, era già iniziato, ma la strada…è ancora oggi da ultimare. Nei pochi giorni di lotta i Guardavallesi hanno realizzato qualche chilometro e mezzo di pista verso Sciordillà
I Badolatesi han tenuto duro per ottantanove giorni: il 9 gennaio 1951 alcuni carri trainati da buoi e l’automobile Fiat 1100 di Antonio Santoro, noleggiatore dell’epoca, partiva dal chilometro 7,4 della strada provinciale Badolato-Santa Caterina-Guardavalle, in località Giambartolo (260 metri circa s.l.m.), e inaugurava la pista sino al "Rinàcchju da Guardia" (750 metri circa s.l.m.). Erano stati realizzati tremilacinquecento metri di strada carreggiabile che univa Badolato alla vecchia strada comunale per Butulli, per la Lacina, per le Serre, per il mare Tirreno. Una strada bagnata dall’impagato sudore del popolo badolatese. Una strada che, nonostante le promesse, non fu mai compiutamente realizzata, anche perché negli anni successivi un nuovo interesse, di tipo religioso, ha stimolato l’Arciprete don Antonio Peronace a darsi da fare perché la strada per le Serre non passasse più da Soglia, bensì dal Santuario della Sanità, in modo che venisse rafforzato il culto per la Madonna del vecchio santuario basiliano. Nacquero, anzi, due opposte fazioni: alcuni sostenevano che la strada per le Serre dovesse cominciare da Giambartolo, perché potesse così passare dal paese; altri si battevano perché cominciasse da Mingiano, passasse per il Santuario della Sanità, ed evitasse il paese. Quest’altra strada, che parte da Mingiano e passa dal Cimitero e dal santuario basiliano, è stata realizzata, difatti, con l’aiuto di politici e funzionari che hanno fatto ottenere i necessari finanziamenti. Ed è importante che vi sia, anche se non è comoda, né veloce, né manutenzionata. Né si può dire che sia quel valido strumento di sviluppo tanto sperato. Se si eccettua, difatti, il periodo estivo in cui è usata dalla gente del luogo per il turismo domenicale, o quasi, il traffico permane molto scarso. Centinaia di milioni improduttivi, quindi?! Noi non lo sappiamo. E la strada di Soglia?! Trentamila (circa) giornate lavorative (mai pagate) per dei vantaggi minimi e riservati a pochi piccoli proprietari, con scarsissima o nulla incidenza sull’economia locale?! Giuseppe Samà, che abbiamo ascoltato a lungo, sostiene che lo sciopero a rovescio del 1950 ha comunque dato buoni risultati. Ci dice, Giuseppe Samà, che nell’immediato sono stati aperti in Badolato numerosi cantieri di lavoro per alleviare la piaga della disoccupazione. Ed è stato emanato un decreto che obbligava i proprietari terrieri ad assumere braccianti agricoli in numero rapportato all’ettarocoltura.
Negli anni successivi la pista realizzata nell’autunno del 1950 è stata migliorata e asfaltata sino alla zona di Soglia. In questi giorni (marzo 2000) si parla di ultimazione, definitiva e comprensiva di bitumazione, dell’intero tracciato, sino alla Guardia.
Noi non siamo in grado, in questa sede, di analizzare gli effetti di quelle giornate di lotta del popolo badolatese. Siamo anzi certi che sfuggono alla nostra indagine tantissime notizie, e motivazioni, e conseguenze. Non abbiamo mai preteso, d’altra parte, di rubare il mestiere agli Storici. Nutriamo, pertanto, la speranza che qualcuno faccia più compiutamente di noi.
Tratto da La Radice
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