Pubblicata in data : 15/10/2004
Periodo storico : 1945
Era da poco passata la mezzanotte del 4 luglio 1945, ed assieme alla solita compagnia di amici, tornavamo dalla solita passeggiata lungo il "trocciolino" ( la strada Badolato-S. Caterina). Quando, giunto ai piedi della gradinata che dalla strada provinciale portava a casa mia, salutati gli amici e fatto a passo svelto i larghi gradini, nelle immediate vicinanze della mia casa, ebbi una sgradita sorpresa. Proprio all'imbocco del vicoletto che si trovava sotto il balcone di casa mia, mi aspettavano quattro persone a viso scoperto; li riconobbi immediatamente e specialmente uno di loro che era stato per diversi anni capo frantoniano nel nostro frantoio. Domandai loro cosa volessero e mi risposero: "Vogliamo parlare con voi"; ed io di rimando, cercando di retrocedere per tentare di raggiungere gli amici che avevo lasciato pochi attimi prima, risposi: "Questa non è ora". Mi saltarono addosso e mi trascinarono fino al muro del giardino della casa Menniti (circa 20 metri) mentre io mi dimenavo e lottavo per cercare di divincolarmi e scappare. La colluttazione fu abbastanza violenta, ricordo che mi capitò fra i denti il dito di uno dei quattro, glielo morsi con tale forza che quasi glielo staccavo. Durante tale strenua colluttazione persi gli occhiali ed uno dei sandali che calzavo, ricordo che avevano il rialzo in sughero. Ebbero la meglio. Erano in quattro e mi sopraffecero trascinandomi verso un sottopassaggio che era usato da tutti i naturali come pubblica latrina. A questo punto pensai che i miei genitori non solo mi avrebbero ritrovato morto, ma anche pieno di porcheria e dissi: "Va bene, vengo con i miei piedi". Mentre tirato e spinto dai miei sequestratori imboccavo il sottopassaggio, vidi mamma, in camicia da notte, urlare e piangere dal balcone della sua camera da letto.
Avendo perso un sandalo ortopedico, zoppicavo vistosamente, ed in queste condizioni camminai fino alla Chiesa di San Domenico (circa quattro o cinquecento metri). Qui, uno dei sequestratori, mi prese sulle spalle portandomi per due o trecento metri, ma percorrevamo viottoli di montagna che rasentavano strapiombi ed io avevo paura di cadere o di essere buttato sotto. Lui si era evidentemente stancato per cui mi scaricò e mi diede le sue scarpe che calzai anche se erano notevolmente più grandi del mio numero.
Finalmente giungemmo, come Dio volle, in un piccolo vigneto e lì ci sdraiammo a dormire tra un filare e l'altro di viti.
Non so i rapitori, ma io non chiusi occhio per l'intera nottata... avevo una paura da matti, pensavo a cosa mai volevano, a cosa mi avrebbero potuto fare. Tenete presente che ancora non mi avevano detto il motivo del sequestro anche se mi assicuravano ripetutamente, specialmente Peppe l'ex capo del frantoio, il Massaro, che non mi sarebbe stato torto un capello... ma. Non è che queste affermazioni mi rassicurassero... ma!
Finalmente spuntò l'alba, ci alzammo e mi condussero in una casetta colonica. Ci trovavamo in una contrada che io non conoscevo assolutamente e dove non sono mai più ritornato.
Devo premettere che qualche mese prima, alcuni malviventi avevano praticato con un trapano, una ventina di fori intorno alla serratura di una delle porte della cantina che si trovava sotto la nostra casa (ora l'abbiamo venduta). Tagliato in tal modo un quadrato della porta intorno alla serratura, questa fu tolta, ma la porta non si aprì perché era chiusa dal di dentro con una sbarra di legno. Fu facile però introdurre un braccio, togliere la sbarra e penetrare nella cantina che era composta da tre vani ed una grotta.
All'inizio della guerra, papà, amante del caffè, ne aveva fatto incetta riempiendone una giara di creta ed un'altra di zucchero.
Pensando alle privazioni alimentari che la guerra avrebbe portato, aveva messo nella grotta oltre alle due giare sopra menzionate, un'altra giara piena d'olio, una cassa con grano ed una cassa con biancheria ed argenteria. Aveva fatto murare l'imbocco della grotta con mattoni da mastro Raffaele " 'e Matteo", ed infine fu sporcato il nuovo muro, in maniera così magistrale che la prima volta che tornai in licenza da Napoli, dove servii la patria, sceso in cantina non notai nulla di diverso da come l'avevo lasciata prima di partire.
Finita la guerra Peppinuzzo ed io, senza l'aiuto di nessun'altro, demolimmo il muro, e mamma, poiché il posto era asciutto, aveva lasciato lì la cassa con la biancheria e l'argenteria. Per portar via i mattoni chiamammo qualche operaio e così ritengo che i ladri siano venuti a conoscenza della cassa, ed infatti portarono via solo e soltanto il contenuto di quella cassa.
Tra l'altra biancheria contenuta nella cassa vi era un asciugamano di finissima tela di lino, tessuta in maniera molto particolare perché aveva la trama e l'ordito sia orizzontale che verticale ed aveva ricamato un monogramma E.O., alto circa 15 centimetri che non erano le iniziali di mia mamma ma di sua nonna genovese. Un altro asciugamano identico l'aveva dato nel corredo a Checchina, mia sorella. Un giorno mia mamma, che non aveva mai voluto cameriere grandi, mandò la "camerierina" che avevamo in casa per i lavori pesanti (il pane, il bucato, conserve varie, salumi, pulizie straordinarie e trasporto dell'acqua dalla fontana pubblica, tutti lavori che spettavano alle donne) dalla sarta che stava nella "ruga" (il rione) con della stoffa per farsi cucire una camicetta. Al ritorno la cameriera riferì a mia madre che sul tavolo della sarta aveva visto quell'asciugamano anche se non più bianco. Mamma mandò a chiamare immediatamente la sarta e le chiese se poteva farle vedere quella stoffa. Appena la vide la riconobbe subito e fece notare alla sarta che ancora si vedevano i buchi lasciati dal ricamo del monogramma. Di conseguenza denuncia ai Carabinieri ed arresto di diverse persone.
Ma torniamo alla mia avventura. Entrati in quella casetta rurale mi dissero che avrei dovuto scrivere a mio padre perché si portasse a Catanzaro, e insieme a mio zio Peppino (era Consigliere della Corte di Appello) chiedesse ed ottenesse la scarcerazione per il furto del quale ho raccontato prima. Feci presente che, attese le mie condizioni di prigioniero, ero pronto a scrivere tutto quello che mi avrebbero richiesto di scrivere e chiesi carta e penna: non avevano né l'una né l'altra. Per cui trovai rimedio alla loro pessima organizzazione, usando il retro di una busta di una lettera che avevo in tasca e dopo aver rassicurato papà che stavo e mi trattavano bene, gli comunicai i loro "desiderata".
Uno di loro prese questa specie di missiva, si presentò a casa mia che era piena di gente, consegnò la lettera e chiese la restituzione del berretto che uno di loro aveva perso nella colluttazione e che era rimasto sul campo di battaglia insieme ai miei occhiali ed al mio sandalo.
Ricevuta la missiva, mia cugina Vittorina Caporale, prima di consegnare il berretto al latore lo pregò di attendere cinque minuti. Prese una valigetta e vi mise dentro gli occhiali, un paio di scarpe, una soppressata, un pezzo di formaggio, un pane da due chili avvolto nel giornale "La Voce Repubblicana" e tanti fogli di carta bianca. Quella è stata l'unica volta della mia vita che ho letto "La Voce Repubblicana" dalla testata agli annunci economici!
Non avevo mancato, sin dal primo momento, di far presente ai miei sequestratori, il gravissimo delitto che avevano commesso, insistendo e continuando ad insistere più e più volte perché mi rilasciassero immediatamente, assicurandoli che avrei minimizzato il fatto ed avrei affermato che si era trattato di uno scherzo e che non li avrei traditi. Ma inutilmente, le mie parole sembravano dette al vento, comunque io continuai a martellarli con la richiesta di rilascio.
Allorché il messaggero ritornò e mi consegnò la valigetta, mi precipitai a rimettermi gli occhiali e le scarpe e poi, presi penna e carta, incominciai a scrivere a Maria, raccontandole minuziosamente quanto mi era accaduto, come ero stato portato in una sperduta campagna, come stessi vivendo quelle terribili ore col ricordo costante di lei, come vivessi nella speranza di poterla presto rivedere e ripeterle tutto l'amore che avevo per lei. Ogni tanto interrompevo la lettera e prendevo il giornale, leggevo e interrompevo la lettura per parlare con i miei carcerieri. Ma non riuscivo nemmeno ad ingoiare un boccone di pane, perché, anche se mi trattavano con grande rispetto e mi usavano grande gentilezza (pensate che, quando per difenderci dai raggi del sole cocente, eravamo costretti a spostarci per trovare un posto all'ombra, sempre lungo la riva di un fresco ruscello, la prima cosa che facevano era quella di prendere la mia valigetta per portarmela, tanto che per scherzare, con le labbra ma non con il cuore, dicevo loro: "Ma come? Sono vostro prigioniero e mi portate i bagagli?") dentro di me ero pieno di paura, che naturalmente mi sforzavo di non dimostrare, che in qualsiasi momento potesse scattare un qualcosa che avrebbe potuto far maturare in loro una decisione per me mortale. Verso mezzogiorno si riunirono a parlottare tra loro e poi Peppe, l'ex massaro (che conoscevo meglio di tutti gli altri e col quale parlavo di più) mi si avvicinò e mi disse:" Abbiamo deciso, siete libero!"
Cercate di immaginare la mia gioia: sono saltato in piedi come una molla ed ho immediatamente afferrato al valigetta per andare, finalmente, a casa. Era trascorsa solamente una notte e mezza giornata, ma mi sembrava che ne ero lontano centinaia di anni. Ma fui subito gelato perché lo stesso Peppe mi fece presente che eravamo in ora canicolare e che, quindi, era più opportuno aspettare qualche ora e riprendere la strada di casa quando il sole fosse un po' calato. Mi risedetti scoraggiato e ripresi a scrivere a Maria. Ne venne fuori un "passio". Dopo circa un'ora sentii un fischio di richiamo e, subito dopo, comparve un'altra persona, un loro compare, il quale portò la notizia che i carcerati erano stati liberati ed erano già tornati in paese.
Verso il calar del sole lasciammo le sponde del fresco ruscello che tanto mi aveva dissetato e ci avviammo verso il paese. Io camminavo avanti, con a fianco Peppe, gli altri venivano dietro e parlottavano tra loro. Ad un certo punto, eravamo nei pressi della casetta rurale di zio Antonio Caporale in contrada "Cirimingiano", nelle vicinanze della chiesetta della Madonna della Sanità, uno di quelli che veniva dietro, allungò il passo e raggiunse me e Peppe e mi disse: "Penzàmma 'na cosa". Sentendo tale frase mi sentii venir meno perché immediatamente pensai che si erano pentiti, invece quello continuò: "Siamo coscienti che abbiamo, facendo quello che abbiamo fatto, arrecato una grave offesa alla vostra famiglia ed allora abbiamo deciso di venire tutti con voi, a casa vostra, per chiedere scusa". A tale gentile offerta io risposi: "Bravi! Così sarete immediatamente arrestati". L'interlocutore rimase di stucco ed io continuai: "Non vi rendete conto che a quest'ora Badolato sarà pieno di Carabinieri e Questurini?" Percepirono immediatamente la giustezza della mia affermazione ed aggiunsero: "E pensare che avevamo deciso di andare in un "catòiu" (una cantina) per festeggiare il buon esito dell'operazione con tutti gli amici".
Uno di loro, però, non ricordo se il latore del messaggio o qualcun altro, mi accompagnò fin dentro il portone di casa mia per portarmi la valigetta.
La mia casa era strapiena, come una melagrana, di parenti, amici, gente che conoscevo e non conoscevo, e fui baciato da tutti.
Quando finalmente tutta quella gente, tutti i badolatesi, se ne andarono, potetti finalmente mangiare, e pensate che fame da lupo dopo il digiuno patito! Nella serenità della mia casa mi coricai d'urgenza perché avevo i piedi che mi facevano un gran male per aver camminato, scalzo, con scarpe grandissime per il mio piede, per il tempo trascorso senza dormire per tutta la tensione subita.
In tutta coscienza debbo dichiarare che durante quel breve tempo (una notte ed un giorno) che era sembrata un'eternità, che rimasi nelle mani dei miei sequestratori, sono stato trattato bene, con ogni rispetto, mi furono usate tutte le gentilezze possibili ed io non mancai di fare presente tutto ciò, unitamente al fatto che ero stato dichiarato libero prima ancora che giungesse la notizia della scarcerazione dei detenuti, ai giudici della Corte di Assise che successivamente li giudicarono. E sono certo che queste mie dichiarazioni hanno influito notevolmente sulla mitezza della pena loro inflitta. Io non li incontrai mai più. Seppi che uno era finito al manicomio dov'è morto.
Ora viene una coda all'avventura appena narrata, un episodio che ha del paradossale. Mi ero coricato, come ho detto, e già dormivo come un sasso quando venni svegliato da Luigi Sgro, il quale mi disse che c'era un tenente che desiderava parlarmi. Lo feci entrare e mi comunicò che il Comandante la Legione dei Carabinieri ed il Questore si trovavano nel Comando Stazione Carabinieri di Badolato e desideravano parlare con me.
Malgrado lo stato in cui mi trovavo, la stanchezza ed il male ai piedi mi alzai, mi vestii e lo seguii. Lungo la strada da casa mia alla caserma ogni due o tre metri vi era una pattuglia di carabinieri o di questurini ("A Santa Chiara... " con quel che segue !!!). Giunto in caserma ricevetti le felicitazioni di tutti e venni invitato a raccontare tutto lo svolgimento dell'incresciosa avventura. Incominciai e partii dalla colluttazione, ma mentre mi inoltravo nel racconto ho avuto modo di rilevare che il Questore ripetutamente guardava l'orologio che portava al polso, il che in verità mi urtò moltissimo, per cui omisi assolutamente di fare i nomi dei miei sequestratori.
Finita la narrazione dissi: "Tutto questo l'ho detto qui senza alcuna verbalizzazione perché la dichiarazione che vorrete verbalizzare è questa: 'Quattro uomini bendati ed armati mi hanno sequestrato sotto casa mia, mi hanno bendato e portato in montagna, mi hanno fatto entrare in una casetta e fatto scrivere la lettera che ho mandato a mio padre; dopo di che mi hanno nuovamente bendato. Mi hanno tolto la benda solo quando mi hanno riportato nel portone di casa mia". Il Questore allora disse: "Ma questa è omertà". Io risposi: "Sarà pure omertà ma lei come chiama il fatto che da diverso tempo guarda e riguarda il suo orologio dicendo che è tardi e domani ha molto da fare? Se lei ha da fare domani, sappia che io ho da fare tutta la vita: Lei è venuto stasera qua perché domani i giornali citino il suo intervento, ma senza nessuna volontà di fare una seria operazione di polizia ed io non ci sto!" Mi rispose: "Se ha paura per la sua vita può sempre trasferirsi in un altro paese". Rimasi di sasso e gli risposi per le rime: "La mia è omertà, come lei l'ha chiamata, ma il suo è semplicemente cinismo. Dimentica che io sono il Vice Pretore reggente della Pretura ed ho dei doveri a parte il fatto che sono nato qui, ho un sacco di parenti che, seguendo il suo cinico consiglio, lascerei alla eventuale vendetta, ho mio padre non più giovanissimo che esercita la professione di medico. E dopo ciò la saluto, saluto e ringrazio tutti per la cortesia usatami convocandomi qui e me ne vado a riposare perché ne ho ben diritto". E me ne andai.
E i nomi? Quali i nomi di questi "pionieri" del sequestro? Noi li conosciamo, perché ce li siamo fatti dire da chi, avendo qualche anno più di noi, quegli avvenimenti li ha vissuti. Ma non li diciamo, come non li ha detti il giudice Scuteri. E lo stesso "Peppe", latore ex capo frantoiano, aveva in realtà altro nome. Diciamo soltanto che gli autori del furto, ch'è alla base della vicenda, sono usciti dalla porta del carcere e ne sono entrati dalla finestra, quasi immediatamente.
La casa rurale, nella zona di Fangemi, oggi è soltanto un rudere, e forse non ricorda più d'aver ospitato paura e sofferenza nella notte del 4 luglio del 1945.
Tratto da La Radice
|