Pubblicata in data : 16/10/2004
Periodo storico : XX secolo
"Quand’a mmai Riggiu vindìu ranu e Cutròna vindìu sala?"
I proverbi, è noto, sono l’antica saggezza in pillole. Ed anche, ed ancor prima, una specie di enciclopedia cui attingere all’occorrenza. Quello di sopra, che letteralmente significa "Quando mai Reggio ha venduto grano e Crotone ha venduto sale?", a me ha insegnato, quando ancora ero bambino e sapevo ancora molto poco di geografia, che nel Reggino si vendeva sale perché lo si ricavava dal mare, mentre il Crotonese era ricco di grano, grazie alla conformazione e alla composizione di quel territorio (il proverbio taceva ogni riferimento al salgemma di Strongoli).
Ma…Badolato? Come si collocava Badolato tra Reggio e Crotone? Per tanti anni, memore delle numerose e alte "timògne" che da bambino vedevo a Lucro o sul Montemanna, e con ancora nelle orecchie l’eco della decantata massima resa ("jettàu de trìdaci") delle nostre messi, sono stato convinto che Badolato fosse un apprezzabile granaio. E forse lo era. E io ne andavo un po’ orgoglioso. Ma in quale rapporto con la zona di Crotone? Mi veniva in qualche modo in aiuto il ricordo di un viaggio che durante la guerra, quando io ero ancora bambino, affrontò anche mio padre, artigiano, essendo andato nel Crotonese a comprare del grano per farne del pane. Ma non era sufficiente. L’informazione, categorica e precisa, l’ebbi alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, quando a Strongoli il saggio contadino Michele Vetere, che, tra l’altro, m’ha rivelato, a mia richiesta, che "i nzìnzami" si chiamano in italiano "giuggiole" (solo qualche anno più tardi ho acquistato, e diffuso, il Dizionario dialettale della Calabria, di Gerhard Rohlfs), nel corso di una conversazione recitò: "Isca Sant’ (a)Ndria e Badulàtu ‘e ranu carricàru nu puhr!ìtru". L’enciclopedia era aperta, e il messaggio era chiaro, sebbene in chiave ironica: tre paesi ci volevano, tra cui Badolato, per ottenere la produzione di grano sufficiente a formare il carico, non di un asino, ma di un puledro!
Cominciò così a essere chiara, per me, la vicenda di un’altra forma di emigrazione stagionale di lavoratori badolatesi, uomini e donne, adulti e adolescenti: l’"avventura" nel Marchesato, in piena estate, per dare una forte mano al lavoro di mietitura e/o di trebbiatura delle sconfinate messi del Crotonese, la cui resa ancora oggi è mediamente da uno a trenta, con punte massime di quaranta. Si noti che qui da noi, a Badolato, capitava persino che la resa fosse di uno a uno; spesso era di uno a due oppure tre; andava già bene il raccolto quando si producevano quattro o cinque tomoli di grano su uno seminato; era grande festa, poi, quando si ottenevano otto tomoli per tomolata, ed era eccezionale quando "jettàva de dùdaci o de trìdaci".
Oltre alle mondine, di cui abbiamo già scritto nel passato, abbiamo avuto un’emigrazione, in verità poco consistente, per il tempo della vendemmia nella zona di Sambiase. Ed anche per la raccolta della barbabietola da zucchero nella fascia ionica di Strongoli dove sino a non molti anni fa c’era uno zuccherificio. Ma l’emigrazione per la mietitura e per la trebbiatura del grano è sicuramente la più rilevante per numero per numero di lavoranti e per durata. Ci risulta che già verso la fine del XIX secolo il badolatese Giuseppe Carella, probabilmente insieme ad altri, si è portato nella zona di Cutro per lavori quasi certamente stagionali, e fu lungamente al servizio del barone Sculco. Non ha mai fatto ritorno a Badolato. Tra i suoi discendenti, oggi residenti a Crotone e dintorni, ricordiamo Tonino Carella, attuale direttore dell’importante settimanale "la Provincia KR". E Tommaso Lopilato (dei Pittùri) è approdato a Strongoli negli anni Trenta del secolo ventesimo, senza più far ritorno al suo paese: i suoi discendenti vivono ancora oggi a Strongoli, con il cognome trasformato in Pilato. L’attuale Sindaco di Strongoli -per citare ancora un caso- Codispoti, discende da emigranti di S. Andrea Ionio.
Partivano, dunque, questi nostri lavoratori del braccio, a piccoli o a numerosi gruppi, di tutti maschi o di tutte femmine, a seconda dell’esigenza, su richiesta del datore di lavoro e quindi tramite Ufficio di Collocamento o d’iniziativa, quasi alla ventura: avevano sicuramente in comune, gli emigranti, la sorte di non appartenere a famiglie che, avendo parecchia terra al sole, non potevano permettersi il lusso di mandare altrove le proprie braccia.
Servendosi il più delle volte del treno, calcavano le orme delle "cangiarànu", spesso al seguito di un caposquadra che li sceglieva in paese, li guidava durante il viaggio, ne rispondeva -almeno moralmente- durante il lavoro, che iniziava nei primi giorni di luglio per finire, nei casi più fortunati, alla vigilia della festa della Madonna della Sanità, fissata, allora, all’ultima domenica di agosto.
C’è ancora in paese chi ricorda i nomi di alcuni tra quelli che, d’iniziativa o per incarico del padrone, formavano le squadre: Giuseppe Bressi (Caròmba) e certo Lentini (Cordèhr!u) in anni ormai molto lontani; mastro Vincenzo Pultrone calzolaio (Sbarru) e Domenico Battaglia (Cacamòhr!u) e Vincenzo Spasari (‘e Ciccio ‘e Lesi) verso la metà del secolo scorso..
Datori di lavoro alcuni grossi latifondisti, come Barracco e Sculco, ma anche proprietari di trebbia (come Witnberg) che si spostavano in lungo e in largo per trasformare in grano il grande numero di covoni di piccoli e grossi proprietari sulle assolate aie di quest’africano Ionio. Campo di battaglia da Botricello a Cutro, a Isola Capo Rizzuto, a Capo Colonna, a Strongoli, a Papanice, e talvolta anche oltre. In condizioni di lavoro significativamente definite dal termine con il quale venivano indicati in alcune zone del Marchesato questi nostri lavoratori: venivano detti "mandrèhr!i", termine la cui matrice anche dal glottologo Rohlfs è fatta risalire a mandria, ovile, pecore, stalla, porcile, letame. In un paese del Crotonese c’è ancora un quartiere, periferico, dove i braccianti delle nostre zone sceglievano di abitare quando decidevano di non fare più ritorno al paese d’origine: una sorta di ghetto, nella memoria della gente del luogo.
Tra gli operai che lavoravano alla mietitura, con la falce, e quelli addetti alla trebbia non c’era alcuna differenza: prestavano la loro opera "da sole a sole", dall’alba al tramonto; si lavavano se avevano la ventura di venire a trovarsi, durante gli spostamenti, nei pressi di qualche fiumara; dormivano sotto la trebbia o in cunicoli che avevano balle di paglia per pareti e per soffitto; mangiavano cibo caldo solo a sera, pasta, oppure pasta, con la salsa del pomodoro, raramente con il sugo della carne. Mi si racconta, oggi, che tredici badolatesi, una grossa squadra che nel 1953 ha lavorato nel territorio di Isola Capo Rizzuto, per poter mangiare della carne (di capra) il giorno di ferragosto hanno sottoscritto cento lire ciascuno. Non era male il salario, in verità: da settecento a mille lire il giorno, nel corso degli anni Cinquanta, ma per un minimo di 12 ore giornaliere di lavoro (chi lavorava qui in paese percepiva cinquecento lire il giorno); ogni operaio aveva inoltre un chilogrammo di pane e un litro di vino; ed un chilogrammo di formaggio ogni dieci giorni (qualcuno riusciva a portarne persino alla famiglia, a Badolato, dentro il sacco che custodiva poche misere cose). E da bere, oltre il vino? Acqua conservata in damigiana, dalla temperatura che "in pochi minuti si sarebbe cotta la pasta". C’è chi mi racconta, però, che il suo padrone l’acqua da bere la teneva in una grossa botte da vino: "quandu si laprìa a margarìta, l’acqua avìa u culùri do lignu".
Chi non partiva "organizzato" rischiava non solo di non trovare versati i contributi assicurativi al momento della pensione, ma soprattutto di non trovare lavoro, e di fare quindi la nera fame per le vie di Isola Capo Rizzuto: a qualcuno è successo. E non sempre facili erano i rapporti con la gente del luogo, gente notoriamente "difficile" nei rapporti umani. Talvolta ci scappavano le risse, anche perché talvolta i Badolatesi non si fanno pregare, per cui capitava, per evitare il sangue, di doversela dare a gambe levate, magari nottetempo, per far ritorno a Badolato, o a Roccella, o a Gioiosa, o a Polistena, o a Melito Porto Salvo, giacché Badolato non ha mai avuto l’esclusiva dell’emigrazione, neanche di quella stagionale.
A dare man forte alla nostra gente, a non scoraggiarla, la buona salute, nonostante gl’insulti continui. Ma qualche volta si faceva viva la febbre malarica, ed erano guai seri. E c’era anche l’insidia dei rettili, tra la paglia. Giacomo Stefanelli, ancora diciottenne ci andò anche lui nel Marchesato, con una nutrita squadra guidata da Vincenzo Spasari. Una notte, mentre dormiva in un "appartamento" di paglia, sognò che stava mangiando e che s’era infilzato un labbro con la forchetta; il dolore era tale che egli, nel sonno, con uno scatto fulmineo afferrò la forchetta per scaraventarla lontano: ovviamente non scaraventò lontano la forchetta del sogno, ma un viscido serpente che, però, aveva già iniettato il suo veleno. La corsa in paese, a Isola Capo Rizzuto, e le tempestive punture del medico gli hanno salvato la vita.
Così sino alla fine degli anni Cinquanta. Poi l’emigrazione dei Badolatesi tornò ad essere definitiva: i vari Criniti, Frascà, Gallelli, Menniti, Papaleo, Piroso, Spasari, Stallo, Stefanelli, Tommaseo…hanno messo su innumerevoli "treni del Sud" le loro valigie di cartone, per approdare a Rho, a Varese, a Grugliasco, a Milano, a Petite Couronne, a Wetzikon, a Francoforte.
Ma questo è un altro capitolo di storia badolatese, di cui non vogliamo e non possiamo scrivere. Almeno per ora.
Ora, invece, quasi a mo’ d’appendice, ma relativamente -s’intende- alla sola collocazione topografica, il piacere di "offrire" questa bella poesia dell’amico poeta Vito Maida, la cui sensibilità, già nota ai lettori de "La Radice", non poteva non alimentarsi anche di un argomento come quello trattato in questo "racconto" di storia della nostra gente.
SPINE E SPIGHE
"Attenti alle spine nascoste tra le spighe."
Era il richiamo di quelli di Cutro
per noi stranieri, di fuori Marchesato.
Ma nessuno guardava il suo sangue colare
e nessuno era triste in quel regno del pane
se non quella volta, già notte, a San Mauro,
quando tanti cantarono il grano e la colpa,
la nostra grandissima colpa,
di avergli, al mattino, tagliato la testa.
Tratto da La Radice
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