Pubblicata in data : 16/10/2004
Periodo storico : XX secolo
Un nostro amico, stimato uomo di scuola e di cultura, suole spesso dire che il peggiore difetto di noi Calabresi è quello di piangerci addosso, di lamentarci di tutti i guai che ci affliggono, magari per colpa di noi stessi. Uno di questi guai, forse il più macroscopico e dalle ricadute certamente non tutte positive, è l’emigrazione, male cronico di questo nostro Sud, costante storica che ci accompagna almeno fin dal 1870, o giù di lì.
È pur vero che piangersi addosso non serve. E potrebbe persino apparire anacronistico scrivere di emigrazione in un periodo in cui stiamo diventando anche noi terra di immigrazione. Ma tutti sappiamo che spesso l’attuale è un’immigrazione scellerata e talvolta di passaggio. Mentre, invece, l’emigrazione della nostra gente continua, ancora oggi, a quasi un secolo e mezzo dalla formazione del cosiddetto Stato Unitario Italiano.
Sono di questi giorni le ultime partenze di Badolatesi in cerca di lavoro, per Siena, per Firenze, per altri Lidi. Ed è pensando a questi ultimi migranti che proponiamo all’attenzione dei nostri lettori un altro segmento di storia badolatese, pressoché sconosciuto, e non solo dai più giovani.
Erano appena trascorsi gli anni Cinquanta di questo secolo, passati alla storia d’Italia come gli anni della ricostruzione e del miracolo economico. Miracolo economico fortemente avvertito anche a Badolato, per qualche dinamismo strutturale e operativo in più settori della vita sociale, ma senza che si creasse in loco bastevole possibilità di lavoro, parametro di umana dimensione -lo ripetiamo- ancor prima che indispensabile mezzo per la sopravvivenza. Ecco cosa scrive un nostro ricercatore: "Per Badolato l’anno 1960 costituisce la fine degli ultimi interventi pubblici spesi in grandi opere per riparare i danni delle precedenti alluvioni. Con il rastrellamento dei capitali locali e del risparmio nelle banche all’indirizzo del Nord, neanche l’iniziativa privata ebbe la possibilità di sorgere…". E poi: "La fine degli anni Cinquanta, per gli abitanti di Badolato e per la popolazione meridionale, coincide con la fine di tutte le speranze che ci potesse essere la volontà governativa volta a far risorgere il Sud con interventi atti ad arginare la disoccupazione." Da cui: "…il grande balzo delle emigrazioni individuali e dei nuclei familiari, che si attua a partire dal 1961." (1)
Ed è proprio nel 1961 che si comincia a scrivere, in Badolato, una nuova pagina di emigrazione, tutta al femminile: nel mese di maggio cinquanta donne badolatesi lasciano le loro case per andare a lavorare nelle risaie. Sono le prime mondine di Badolato. Alcune prendono il treno per la prima volta; altre lasciano per la prima volta la famiglia. Qualcuna ha appena quindici anni; qualche altra è alla soglia dei cinquanta. Niente che ricordi i drammi dell’emigrazione transoceanica del primo dopoguerra. Nessuno scompaginamento di nuclei familiari. Nessuna ondata senza ritorno. Si è trattato semplicemente di un’emigrazione stagionale, ripetutasi negli anni 1962 e 1963. Un’ulteriore prova -se vogliamo- della laboriosità e della determinazione dei Badolatesi. Nella fattispecie, "delle" Badolatesi. Era, difatti, convinzione -e forse lo è ancora- che, "occorrendo mani delicate e veloci, le stesse mani che pazientemente infilano l’ago e cullano i neonati…soltanto le donne potessero lavorare nelle risaie…in un lavoro duro e immutabile, con le gambe nell’acqua, la schiena curva, il sole a picco sulla testa…". (2)
Da secoli, come si sa, allo stesso modo che in Cina e in India, si coltiva il riso qui da noi, nelle province di Novara, di Pavia, di Vercelli. E da secoli milioni e milioni di mani di donne hanno impresso segni incancellabili nell’ubertosa pianura del Settentrione d’Italia.
Non era facile, negli anni di cui trattiamo, che una donna badolatese partisse da casa per approdare alle risaie lombardo-piemontesi, per più di un motivo. Ma nel 1961 -come dicevamo- esaurita la speranza di occupazione qui da noi, cinquanta nostre donne, abitualmente impegnate in agricoltura, partirono per le risaie della provincia di Pavia. Quasi a mo’ di storico omaggio, vogliamo qui ricordare alcuni nomi: Vittoria Argirò, Caterina Battaglia, Rosa Carnuccio, Antonella Maria Teresa e Vincenzina Carnuccio, Teresa Fiorenza, Raffaela Lanciano, Filomena Paparo e due sue figlie, Marianna Procopio (cui attingiamo per questa pagina ricerca). Ma ricorrono scopriamo tanti altri nomi, perché l’esperienza delle mondine badolatesi si è ripetuta nel 1962 e nel 1963, con parziale annuale ricambio. Tre le più anziane Concetta Epifani, Caterina Lentini, Domenica Peronace. Ma sono state mondariso anche Rosa Campagna, Domenica Carnuccio, Caterina Ermocida, Concetta e Caterina Gallelli, Gina e Provvidenza Gallelli, Teresa Gallelli, Vittoria Leto. E tante altre.
Con regolare contratto di lavoro, ovviamente. Erano anni, quelli, in cui cominciava a nascere il bel mondo in cui navighiamo oggi. Le nostre mondine, accompagnate in treno sino a Catanzaro dal nostro Collocatore (signor Piccolo nel 1961; signor Gallelli nel 1962 e ’’63, venivano vaccinate come soldati, e ricevevano poi lo zaino della risaia, con due pantaloncini, due camicie, un cucchiaio, una forchetta, un piatto (d’alluminio), un bicchiere con manico, per l’acqua (pure di alluminio), un paio di lenzuola, una coperta, una federa per cuscino, un materasso, vuoto (da riempire di paglia nella cascina padronale, vicina alla risaia). E poi il treno speciale per il Nord, con regolare passaggio di consegne ad altro Collocatore al momento dell’incontro con altro gruppo di mondine, a Lametia, a Paola, a Sapri,…Sino al raduno di…Alessandria; all’appello del padrone, nella risaia cui si era destinate. Là dove le "clandestine" (come la nostra Vincenzina) venivano messe da parte, a meno che…non si pagasse il "pizzo" al "caporale". Cosa che avveniva spesso, anche perché faceva comodo al padrone che così non pagava i contributi per la manodopera nera. D’altra parte l’Italia è sempre l’Italia, sia pur nel mutare dei tempi, dei mezzi, dei modi e …delle percentuali.
Si è detto di un lavoro duro e immutabile, e tale era, in verità, a sentire la nostra Marianna Procopio. Ma le condizioni generali erano, se non buone, almeno accettabili. Buono, difatti, era il cibo, cinque volte il giorno (panino e latte al mattino, colazione alle nove, riso a mezzogiorno, merenda nel pomeriggio, riso alla sera; giovedì e domenica, però, si mangiava carne, e la pasta al posto del riso!) Buona anche la paga: trecento lire l’ora, nel 1961, e un chilogrammo di riso per ogni giornata di lavoro effettivo. E la possibilità di fare, ogni giorno, almeno quattro ore di lavoro straordinario, anche perché scarse erano le possibilità di svagarsi durante il tempo libero, in quanto le risaie non erano certo contigue ai centri abitati. E faceva comodo anche ai padroni eludere l’obbligo di pagare contributi per lo straordinario, che non veniva segnato. Quattro ore di lavoro la domenica, ma ne venivano pagate otto. A conti fatti la paga mensile non era inferiore a 72.000 lire, cui si aggiungeva il chilogrammo giornaliero di riso e il vitto per l’intera giornata. Non era poco, per la verità. (Il sottoscritto, tenente di artiglieria, nel giugno del 1961 ha percepito uno stipendio di 72.487 lire, senza riso e senza vitto. E va da sé che il richiamo è puramente indicativo, e non può tenere conto della differenza di funzioni, di orari, di condizioni,…) Ma quelli erano tempi in cui il Sindacato non era il nemico numero uno di taluni forti strapoteri.
I brutti momenti e le difficoltà non mancavano. Alcune nostre mondine non riescono ancora a dimenticare la tristezza del primo giorno, e della prima notte in dormitorio, stipate a centinaia e a migliaia. Non vengono riferite molestie, ma era pesante -ci raccontano- non riuscire a comunicare con le donne degli altri gruppi, a causa dei dialetti. E le gambe nell’acqua, per 8-12 ore il giorno, prima quali trapiantine e poi quali mondine; e le neri serpi che seppure innocue mettevano istintiva paura; e la dura fatica di articolare le ginocchia quando il terreno era più molle e i piedi affondavano nella melma. La sera, però, c’era la radio in dormitorio, e si poteva ascoltare qualche brano di musica. E ogni giorno arrivava in bicicletta il postino, e portava le notizie di casa. E alla fine dei canonici 40 giorni, con il gruzzolo racimolato si portava a casa un bel sacco di riso (chi preferiva poteva tramutarlo in denaro) e il libretto delle marche.
E via, col vecchio treno, per riabbracciare mamme, figli, mariti. Con negli occhi l’acqua delle chiuse o la paglia del fienile; con nelle orecchie la voce del padrone o le note del canto delle mondine:
Ogni mattina alle ore cinque
La caporala ci viene a sveglia’.
Ora essa vuole che andiamo sul riso
E tutto il giorno ci fanno trotta’.
…………………………………….
Alla mattina alle ore novembre
una pagnotta ci viene a porta’,
una pagnotta ch’è tanto tiranna
persino i denti ci fanno strappa’.
…………………………………… (2)
"L’anno prossimo, a maggio, ritorneranno, da Nonantola, Cento,…da ogni villaggio del Nord." (2) Così un giornalista di quell’epoca e di quel luogo.
Tratto da La Radice
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