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Eventi Storici di Badolato

"Università Dell'artigianato"


Pubblicata in data : 16/10/2004

Periodo storico : 1800-1900

Sembra non sia più tempo, ormai, di piangere lacrime sull'emigrante meridionale, e quindi anche badolatese, che lascia la famiglia per andare in cerca di fortuna, accompagnato da pesanti bauli e da valigie di cartone, e di cui Nicola Caporale, in "Il mio paese", così scriveva:

La fame per la terra sempre sparse
i tuoi figlioli, e ancor lungi li caccia
a quello stesso treno de la sera.
Oggi si parte verso il Nord. Allora
si affrontava l'ignoto in braccio al Fato
per ben tre mesi d'acqua lunghi e neri.
............................ e la rughella
davanti all'uscio, come al dì nefasto,
a dar l'addio a chi si dipartiva
col dubbio in seno di non più vedersi.

Tanti di quelli a cui nel passato è toccata una simile sorte non vogliono più essere etichettati quali emigranti. Alcuni hanno, anzi, la pretesa di essersi integrati con gli indigeni che li ospitano, oltre Alpi, oltre Oceano; forse a ciò indotti da un limitato oltre che nebuloso concetto di integrazione. Chi scrive ha avuto modo di constatare che una tale pretesa è spesso soltanto pretesa, e niente di più. In ogni caso, nel presente periodo storico in cui siamo noi ad ospitare -non sempre volentieri- ormai tanta gente che bussa alle nostre porte per avere solidarietà e lavoro, dignità e libertà, sembra anacronistico parlare di emigrazione. Invece, no! C'è ancora gente che va via da Badolato, che emigra. In cerca di lavoro, che consenta di concretare la dignità, la libertà. Ma è di altro che vogliamo qui scrivere. Vogliamo dire di una emigrazione fugace, temporanea, che sotto molti aspetti somiglia a quella di chi lascia la propria terra, la propria casa, i propri congiunti per motivi di studio, per la frequenza di corsi universitari. Un'emigrazione, questa, di cui Badolato, paese veramente periferico, ha sempre sofferto e insieme gioito per le ovvie notevoli ricadute positive.

Abbiamo già scritto altre volte di giovani che partivano da piazza Fosso a dorso di mulo, attraversavano l'Appennino e a Pizzo s'imbarcavano per Napoli, la capitale del Regno, da dove tornavano medici, avvocati, ingegneri. Spesso quelle partenze, e quelle soste distanti dagli affetti familiari, lasciavano segni non facilmente cancellabili. La storia continua ancora oggi: centinaia di nostri giovani fanno la spola tra Badolato e Roma, e Firenze, e Pisa, e Bologna, e Milano. Quale grande dispendio di energie! Talvolta senza ritorno! Emigrazione anche questa! Voluta, colta, dorata ... ma comunque lacerante.

Vogliamo qui scrivere, questa volta, di una emigrazione esclusiva di Badolato: tanti suoi figli lasciavano il paesello per andare a Napoli (sempre Napoli!) a imparare il mestiere, o a perfezionarlo, per diventare artigiani "rifiniti", falegnami, calzolai, sarti. Abbiamo chiesto a ben informati amici dei paesi vicini: nulla di ciò a Guardavalle, S. Caterina, Isca, S. Andrea ... Non che manchino -o che siano mancati- valenti artigiani anche da loro, ma nessuno che si sia recato a Napoli per diventare tagliatore, o ebanista.

Il primo di questi curiosi emigranti di cui siarno venuti a conoscenza, scavando, è mastro Peppino Caporale. Ma anche mastro Ciccio Caporale, fratello di Peppino, "emigrò" a Napoli per diventare ebanista: vi rimase quattro anni, frequentando, dopo la bottega, la Scuola di Belle Arti. Ancora oggi Badolato conta a decine, forse a centinaia, le opere di questi due artisti (letti, comò, comodini, nicchie). È andata perduta, purtroppo, l'opera forse la più bella di quel "mastro Peppino Caporale / che del Guerino l'arte bella apprese": l'artistica lignea "varetta" dentro la quale nei riti della Settimana Santa veniva portato in processione Gesù morto. È stata distrutta, in Badolato e per dissennata decisione di Badolatesi, semplicemente perché fradicia. Rimane descritta, però, a pagina 34 del poema "Il mio paese" di Nicola Caporale, che più avanti così descrive mastro Peppino, suo padre, e mastro Ciccio, suo zio:

Mastro Peppino, ingegno vivo e guida,
cui difetto non fa buon gusto all'arte,
con matita e compasso e squadra traccia
novella forma per squisito arredo
o capitel corinzio a la colonna,
o dolce gola di cornice eletta.
Francesco esegue con scalpello il segno,
per adornare gran portone o stipo
ché a Napoli i segreti di loro arte,
dai Guerini il maggiore e all'Accademia
l'altro colsero.

Tutti bravi i nostri numerosi falegnai, compresi quelli che non si sono recati a Napoli per diventare ebanisti. Tra questi primeggia mastro Gianni Verdiglione, discepolo dei Caporale. Anche di lui esistono ancora in paese numerosi intagli (letti, comò, ecc.).

A Napoli si è pure recato, ancor prima della prima guerra mondiale, un altro nostro valente artista, mastro Antonio Gallelli, detto Picu. Nella capitale (ormai solo morale) del Meridione, a sera, sebbene stanco, frequentava una Scuola di disegno. Le sue sculture lignee sono forse tra le più belle dell'artigianato meridionale di questo secolo: primeggia la "farmacia" scolpita per il dottor Domenico Gallelli; ma ci ha lasciato anche letti, e comò, e qualche disegno.

A Napoli si sono pure recati -per dire ancora di falegnami- Domenico Bressi (Runcu), Antonio Schiavone (Pilùsu), Vincenzo Caminiti, Rocco Paparo (Ncipèrdu), Pietrino Andreacchio (presso il laboratorio, quest'ultimo, di Garofalo, che stimava tanto i giovani di Calabria.). Anche mastro Andrea Carnuccio (Chjacchjerùni) è stato a Napoli per perfezionarsi nell'arte di modellare il legno: di lui ricordiamo, in particolare, la "famosa" borsetta lignea realizzata per l'allora principessa Maria José del Belgio, di passaggio da Badolato, nel 1932, con il marito Principe ereditario Umberto di Savoia.

Tra gli ultimi "studenti" badolatesi di ebanisteria a Napoli, ricordiamo Leopoldo Repice e Ciccio Bressi, diligenti apprendisti nel grande laboratorio di mobili e arti decorative "F. Battista", in via Nuova Capodimonte. Lo stesso laboratorio in cui s'è formato ebanista mastro Peppino Spagnolo, che ancora oggi è per noi il decano degli artigiani badolatesi. Per imparare a fare il carpentiere è stato a Scuola partenopea anche rnastro Pietrino Bressi, che già faceva il falegname insieme al padre, mastro Domenico.

Numerosi anche i sarti che si sono fonnati alla Scuola Napoletana. Non che mancassero, anche in questo caso, valenti sarti formatisi ad altre scuole: basterebbe citare mastro Domenico Menniti (1890-1938), ottimo sarto anche per signora, formatosi in Argentina; e mastro Ciccio Repice, (1891-1974) che aveva uno stuolo di discepoli; e mastro Nicola Schiavone, che negli anni 1941-1943 vestiva elegantemente a Napoli centinaia di Ufficiali dell'Esercito, e nel 1968 -sia ricordato per inciso- ha confezionato, qui a Badolato, la prima divisa per il sottoscritto, allora giovane Ufficiale di Artiglieria.

Ancora giovinetto si è recato a Napoli Peppino Gallelli. Nel 1918 emigrò direttamente e definitivamente in Piemonte, a Torino, dove fu conosciuto e apprezzato come uno dei migliori tagliatori e sarti non solo della regione.

Subito dopo la prima guerra mondiale si è recato a Napoli Vincenzo Squillacioti, che poi,, in America, a Brooklyn, è stato uno dei più richiesti tagliatori dalle grandi Sartorie.

Rifiniti sarti da Scuola Napoletana sono stati, inoltre, Francesco Battaglia, Urbano Gallelli, Pasquale La Vita, Antonio Rudi, Giuseppe Spagnolo, Vincenzo Spagnolo. Ultimi badolatesi a prendere il treno per Napoli allo scopo di imparare un mestiere sono stati Cecè Ermocida e Umberto Menniti. Cecè Ermocida è forse l'unico che ancora oggi si realizza quando, nei ritagli di tempo, può tagliare e cucire un vestito da uomo (ma non solo). Sempre nel ricordo del suo maestro, quel don Franco Pisano che gli aveva dato tutta la sua fiducia, scegliendolo tra sette che con lui lavoravano nel suo laboratorio. Allo stesso periodo appartiene un altro sarto badolatese, che non si è formato alla Scuola Napoletana: è Pietro Pultrone, formatosi in Piemonte, dove ha raccolto meritati riconoscimenti ed importanti attestazioni di notevoli livelli di qualità.

A Napoli è diventato bravo calzolaio Pietro Carnuccio, detto Chjacchjerùni. Sempre a Napoli ha imparato a tagliare il cuoio mastro Domenico Corea, divenendo uno dei più bravi calzolai della nostra zona. Nella sua bottega, ereditata dal padre, egli tagliava, il fratello Nicola e la sorella Caterina cucivano alla macchina, il fratello Antonio ultimava, a mano, l'assemblaggio. E dalla loro bottega uscivano i migliori calzolai di Badolato. E i loro stivali venivano a comprarli anche da Catanzaro.

Prima di mettere il punto a questa veloce carrellata, quasi certamente incompleta, per cui chiediamo scusa alle tante altre decine di bravi artigiani che nel corso di questo secolo hanno ben operato nel vecchio borgo, pur senza essersi recati a Napoli, ci preme accennare alle condizioni di vita di questi nostri "studenti" nel periodo di apprendistato.

Come ogni normale persona s'incontravano con amici nel tempo libero; e, come ogni "emigrato", cercavano gli amici tra i compaesani. Per cui i nostri apprendisti gli amici li cercavano -ma era un fatto spontaneo e naturale- negli studenti universitari badolatesi, che a Napoli non sono mai mancati. Così i fratelli Peppino e Ciccio Caporale passeggiavano con i fratelli Giuseppe, Luigi ed Antonio Tropeano, poi medici il primo e il terzo, e avvocato il secondo. Anche questi ultimi, peraltro, figli di un artigiano, un maniscalco. E mastro Peppino Spagnolo si accompagnava spesso a Pietro Caporale e a Tommaso Spasari (poi avvocati), ed ai fratelli Vincenzo e Giuseppe Gallelli (poi notaio il primo e medico il secondo). L'ultirna leva, quella di Leopoldo Repice, di Ciccio Bressi, di Cecè Ermocida e di Urnberto Menniti, si incontrava talvolta, nel tempo libero, con Vincenzino Gallelli (oggi veterinario), e con Vincenzo Pultrone (oggi dirigente dell'Amministrazione delle Finanze). La fotografia che qui riproduciamo può anche servire a documentare quest'ansia di vivere insieme, quando si hanno le stesse radici, e un tipo di terapia al mal di lontananza dalla propria terra.

Poche parole ancora -invece di un intero articolo che sarebbe necessario- sulle condizioni economiche di questi artigiani che spontaneamente lasciavano la famiglia per migliorare e perfezionare il proprio bagaglio tecnico, stilistico, scientifico. Solo qualcuna delle famiglie di provenienza aveva la possibilità di assegnare un sussidio al giovine "emigrato"; per cui era gíocoforza perseguire autonomia economica. E la perseguivano i nostri volontari, anche se con qualche sacrificio. Il compenso (medio) di L 1,50 ogni ora del 1925 (così mastro Peppino Spagnolo, a cui da casa mandavano per posta persino le quaglie, avvolte in erba fresca), o di L 10 al giorno del 1942 (così mastro Pietrino Andreacchio), o di L 1000 giomaliere del 1953 (così mastro Ciccio Bressi), non era tale da potersi dare alla pazza gioia, ma, con un po' di buona volontà (merce quasi introvabile, oggi), bastava per vivere dignitosamente, da gente sana e laboriosa che intendeva perseguire l'obiettivo per cui s'era allontanata da casa.

"Quando penso a Napoli mi commuovo, perché è stato un bel periodo", ci ha detto l'altro giomo, congedandoci, un ormai ultrasessantenne di questi atipici universitari badolatesi.

Il primo, Peppino Caporale, è andato a Napoli nel 1885; l'ultimo, Cecè Ermocida, è rientrato definitivamente da Napoli il 19 aprile 1957: l'agonia dell'artigianato badolatese era già cominciata.

Tratto da La Radice

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