Pubblicata in data : 16/10/2004
Periodo storico : Anni 50
Risale a circa vent’anni fa il progetto di scrivere il glossario della civiltà contadina e artigiana badolatese, che poi solo badolatese non può dirsi, come non possono dirsi solo badolatesi o solo calabresi tante altre cose, quali proverbi, favole, tradizioni, usi, costumi e simili. È nato a scuola, il progetto, e soprattutto per la scuola, cioè per i principali protagonisti della scuola, gli alunni, quando ancora non erano considerati clienti, e nella scuola non si progettava per disposizioni governative, per giunta accompagnate da economiche incentivazioni, ma soltanto perché alcuni docenti avevano capito che senza programmazione e senza progettazione di attività che fossero nella realtà e per la vita non si può andare lontano.
Dal censimento, peraltro da verificare e quindi da completare, sono venute fuori circa sessanta attività di cui scrivere, tra mestieri, "specializzazioni" d’agricoltura (potatura, innesto, ecc.) e attività varie che scandivano lo scorrere della vita operosa, nei campi, nelle fiumare, per le vie del paese, in casa.
Anche se il progetto è ancora da realizzare -se mai ci sarà dato di farlo- abbiamo già scritto di venti attività, dal "carcaròtu" al "mastru d’ascia", dal "ciucciàru" al "sapuni ‘e casa", dal "custurèri" al "voaru". Non ci siamo limitati alla sola lingua: di ogni attività abbiamo pure cercato proverbi, e prezzi dei manufatti (agli anni Cinquanta del ventesimo secolo), e nomi di artigiani.
Tra le circa quaranta attività di cui rimane ancora da scrivere, c’è quella del "ciaramidòtu", importante figura di laborioso artigiano ch’è rimasta impressa nella mia memoria fin da quando, ancora bambino, ogni sera, dopo il tramonto, vedevo Pasquale Gallelli che passava dalla via Adamo di ritorno a casa dalla contrada di San Rocco, dove aveva la fornace.
Oggi la fornace di San Rocco, nei pressi del Convento francescano di Maria SS.ma degli Angeli, non c’è più, e non perché abbia ceduto il posto a un moderno stabilimento di laterizi, come altrove spesso succede, ma perché qui da noi raramente le imprese si trasformano: quando arriva l’ora muoiono e basta.
Mastro Pasquale Gallelli, detto "Ciaramidòtu" perché, appunto, fabbricava "ciaramìdi" (tegole) era nato nel 1884 e ha fabbricato laterizi sino alla morte (10 gennaio 1965). Sappiamo che ha ereditato il mestiere dal proprio padre, Tommaso, in una vecchia fornace in funzione sino al 1927, e non sappiamo da quando. Se volessimo tentare delle ipotesi potremmo supporre che la fornace in località San Rocco sia esistita almeno dalla fine del XVI secolo, probabilmente per le esigenze della costruzione della chiesetta di San Rocco prima, e poi del convento francescano, concepito nel 1602 e realizzato, a tappe, fin dagli anni immediatamente successivi. Piace qui ricordare, a questo proposito, le parole dell’anonimo cronista francescano, rivelatrici dello spirito con cui venivano considerati mattoni e calce e tegole e altro, durante la costruzione del Convento:
"Deh! pietre, calce, Legname, tegole, e tutto ciò che fornite questa Chiesa e Convento dedicati a Gesù Re Divino, ed a Maria alta Reina, deh! siete voi di lode capaci? Terra, aria e recinto che si sacro santuario sostenete, diteci, convienci eloggiarvi? Oh se tanto fosseci lecito, diremmo voi felici, perché a si nobil sorte veniste degnati: mediante quell’inerzia che vi è intrinseca potevate essere destinati alla costruzione de’ Teatri, Bordelli, Anfiteatri, Campidogli, Moschee ed altri infami e sacrileghi Edifizi…"
Dal 1927, venuto meno il padre, mastro Pasquale divenne autonomo nella trasformazione dell’argilla, in una nuova fornace accanto alla vecchia, sempre nella proprietà di don Peppino Gallelli ("Sussuriùsu"). Ovviamente aveva validissimo aiuto dai propri congiunti: lavorava con lui la moglie, Vittoria Samà (1885-1968); fin da ragazzine lavoravano alla fornace Anna, Teresa e Immacolata; meno presente era la figlia Stella perché impegnata a fare la sarta, ma, con attività lavorativa di scambio, procurava al padre saltuaria manodopera; arrivò pure il figlio maschio, Pasquale, che lavorò alla fornace sino al giorno in cui lasciò l’Italia per andare a cercare migliore fortuna in America.
Io personalmente, essendo partito per un lontano collegio in giovanissima età, non ho mai avuto modo di vedere al lavoro i "ciaramidòti". Soltanto oggi, pertanto, ho la possibilità di conoscere le varie fasi della lavorazione, e le difficoltà, e la pesantezza. La fase iniziale, esclusiva degli uomini, consisteva nella pulizia della zona nella quale scavare e nel successivo picconamento sino ad almeno un metro di profondità, per procurarsi l’argilla necessaria e rispondente alle caratteristiche richieste (colore azzurrino). Toccava poi alle donne tagliuzzare l’argilla con le scuri e collocarla nella fossa, ricoprirla con i rimasugli polverosi della stessa argilla, mettervi l’acqua, che portavano con i barili sulla testa dalla sorgente vicina (di altro proprietario, e quindi a pagamento), aggiungervi quintali di sabbia, scavata sul retro del cimitero e opportunamente grigliata, senza dimenticare la proporzione: una parte di sabbia su due di argilla. L’indomani mattina, cominciando di buon’ora, l’operazione d’impasto, prima con le mani e poi con i piedi. E così via, con l’asciugamento, il caricamento, la delicata fase della cottura (7/8 ore) con misurato fuoco prodotta da legna che portavano a fascine sulla testa ancora le donne. Infine, dopo il tempo necessario per il raffreddamento, lo scaricamento e l’essiccamento e…la vendita, quasi unicamente a gente del luogo. Così ogni anno, dai primi di maggio alla fine di settembre poiché nei mesi autunnali e invernali il sole si concede meno facilmente. Quattro o cinque "carcaràte" l’anno, per complessivi 30/40 mila mattoni.
E cosa faceva d’inverno il nostro "Ciaramidòtu"? Non era certo il tipo che restava così a lungo inoperoso! Cambiava mestiere mastro Pasquale: aiutato dai familiari e da operai a pagamento, raccoglieva in montagna la neve, la metteva in delle fosse scavate apposta in zona non battuta dal sole, la copriva con felci e foglie di faggio perché si conservasse il più a lungo possibile. D’estate, poi, Vincenzo Frascà ("u Tarantìnu") e altri "ciucciàri" la portavano da "Passu chjanu" al largo dell’Annunziata dove veniva venduta per essere consumata col vinocotto, il gelato dei poveri l’ha definito qualcuno. Ma questo è un altro discorso, di cui, forse, scriveremo più in là.
La fornace di San Rocco sfornava mattoni pieni e mattoni per pavimento, mattoni per "lettèra" (ripiano del forno) e tegole, le tante tegole dei vecchi tetti delle vecchie case di Badolato Superiore. Mastro Pasquale Gallelli, però, produceva anche altro, più per completezza artigianale che per guadagno: le sue mani modellavano "ritèhr!i" (basi scanalate per argillose vasche da bucato), "timpàgni" (coperchi di bocca di forno), "scifi" (truogoli per maiali), coperchi per zire, coperchi per brocche, fornacette a semicerchio, e persino vaschette per l’acqua dei colombi.
Una sola curiosità, prima di chiudere col forse noioso ma doveroso descrittivo: nel 1952 mille mattoni pieni costavano 60.000 lire, pari ad odierni 723 euro.
Nel 1948 nel terreno preso in affitto non c’era più argilla da farci mattoni. Né il proprietario del terreno vicino fu disponibile ad affittarne una parte a richiesta di mastro Pasquale Gallelli; per cui il nostro "Ciaramidòtu" si trasferì con l’attività verso l’argillosa marina, in località "Acquafrìdda", di cui era proprietario l’avvocato Luigi Spasari. Ma qui l’argilla non era delle migliori. E il figlio, nel 1950, se ne andò in Argentina. E gli anni cominciavano a pesare. Così nel 1953 chiuse per sempre i battenti la fabbrica di laterizi "’e l’Acquafrìdda", ch’era figlia della vecchia fornace "’e Santu Roccu".
Nel 1952 aveva chiuso i battenti anche la secolare fornace del "Monte di Manna". Io -devo confessare- non ne conoscevo l’esistenza: ne ho sentito parlare per la prima volta dall’amico Totò Nesticò, il quale, prima di fare il professore ed anche l’imprenditore, ha lavorato alla fornace insieme al padre, proprio nella marina di Badolato, alle falde del "Monte di Manna". Leggiamo insieme il chiaro e sintetico promemoria stilato per noi dall’amico Totò:
Era la primavera dell’anno 1944.
La 2a guerra mondiale volgeva all’epilogo. L’Italia, in rovina, collaborava con gli alleati Anglo-Americani. Bruno Nesticò, nato a S. Andrea Ionio il 25.09.1910, prendeva in fitto, dal Barone Paparo, un terreno sottostante alla collina di Montemanno in Marina di Badolato, confinante, verso mare, con nazionale jonica 106 e la Strada Pro.le che porta a Badolato centro.
In detto terreno che si sviluppava a varie terrazze dalla nazionale ai piedi di Montemanno, ora sorgono la Chiesa, la Pretura, le Scuole Elementari ed è totalmente urbanizzato, collina compresa, in passato si svolgeva attività di produzione di laterizi (mattoni pieni, mattoni per pavimenti e tegole, "coppi").
Tutte le lavorazioni erano manuali e stagionali (aprile-settembre), si sfruttava la bella stagione per essiccare, prima della cottura, i manufatti di creta. La cottura avveniva in fornace a pignone, intermittente, detta "CARCARA".
Tutto l’insieme delle attività (preparazione dell’argilla, composizione del manufatto, essiccazione, cottura ed infine scarico sul piazzale delle vendite del prodotto finito) veniva chiamato "CIARAMIDIO", da Ciaramida (tegola coppo).
Nel 1944 il tutto era diroccato, in stato di totale abbandono dove pascolavano le mucche di Antonio Paparo, detto "NTONI e Giorgi" che abitava con la sua numerosa famiglia al casino in cima a Montemanno.
BRUNO NESTICÒ, detto u "NDROLU", collaborato da VINCENZINO ARENA, e da un manipolo di artigiani della CRETA, tutti di S. Andrea Ionio, hanno ripreso la produzione di laterizi (mattoni, mattoni per pavimenti e tegole coppi) ripristinando la vecchia e diroccata "carcara", e costruendone una nuova successivamente.
La prima produzione avviene nel giugno del 1944, il primo incasso l’8 di settembre 1944.
Personale impiegato a regime: (uomini e donne) 40/50 unità.
Qualifiche: Mattonaio, fuochista, caricatore scaricatore, carriolante, manovale comune.
Nell’anno 1952 termina l’attività produttiva perché tutto il terreno aziendale viene espropriato a seguito dell’alluvione del 1951 per consentire di realizzare lo spostamento del centro abitato di Badolato Superiore, gravemente danneggiato.
Quello stesso anno il "nostro" si trasferisce in Davoli Marina dove, per gradi, realizza, coadiuvato dai figli, un moderno impianto per la produzione di laterizi ancora in essere.
Chiarissima anche la topografia descrittaci da Totò Nesticò. Aggiungiamo, per ulteriori informazioni assunte, che la zona della "carcàra" si estendeva sino all prima curva dell’attuale via Gramsci, provinciale per Badolato Superiore. La "fossa" era ubicata dove oggi c’è la larga scala che dalla quota della chiesa parrocchiale porta a quella dell’edificio della scuola elementare (via Garibaldi). Aggiungiamo ancora, con l’amaro in bocca, che dappertutto abbiamo cercato qualche fotografia del luogo, com’era prima che fossero costruiti gli alloggi popolari: nulla! Abbiamo attivato un canale per tentare di arrivare al Genio Civile, nel cui Archivio è probabile che vi siano documenti e fotografie relativi alla zona, anche perché c’è stato, al tempo, un contenzioso con un proprietario di Badolato che s’era opposto all’esproprio per evitare che venisse demolita una sua casa colonica: anche in questa direzione, nulla.
Abbiamo scoperto, invece, che la fornace, prima che da Bruno Nesticò è stata gestita per lungo tempo da Salvatore Lijoi, andreolese anche lui, fratello di Francesco Lijoi, che nella marina di S. Andrea insieme ai fratelli Samà aveva una grande fornace, i cui ruderi, persino belli a vedersi, sono scomparsi da qualche anno. E ti pareva!?
Il Lijoi si sentiva più un imprenditore che un artigiano, al punto da permettersi il lusso, ogni giorno, di prendere il treno per andare a pranzare a Soverato, lasciando sole, alla fornace, le sue due belle figliole, cosa molto criticabile negli anni Trenta del ventesimo secolo.
Alcune decine, uomini e donne, di Badolato, di Sant’Andrea e di Isca, le persone che lavoravano alla fornace del Monte di Manna. Anche Domenico Pultrone ("Coddi") ci ha lavorato per alcuni giorni, quando aveva appena otto anni: ha dovuto lasciare subito perché la mazza, di legno, con cui sbriciolare l’argilla era per lui troppo pesante.
Ma perché "Monte di Manna"? Il Monte Manna, da altri detto "Manno" -secondo noi erroneamente- che oggi è lottizzato e coperto, in parte, da abitazioni di numerosi privati, sino a non molti anni fa era un’unica proprietà appartenente al barone Paparo, che l’aveva acquistata nel 1923 dalla baronessa Scoppa. Alla quale era pervenuta, attraverso passaggi sui quali non abbiamo ancora indagato, da D. Silvia Caracciolo marchesa di S. Marco e da D. Francesco Ravaschiero principe di Satriano, che alla morte del M. D. Daniele Ravaschiero, avvenuta il 5 febbraio 1685, avevano ereditato la baronia di Badolato con i casali di Isca e di S. Andrea. In uno dei tanti fogli manoscritti del corposo "Relevio" che abbiamo consultato vi leggiamo, in particolare: "Molini di Badolato affittati dalli 12 di Febbraio 1685…" Ed ancora: "…nel territorio di Monte di Manna per quelli che vanno a cuocere ciaramidi, pagano per ogni cottura cento ciaramidi…". Ed altrove: "Dalli ceremidari di Badulato…per il cento…ducati 2, 2 10".
Un mestiere antico, quello del "ciaramidòtu", a Badolato. Come in chissà quanti altri luoghi. Come il "carcaròtu", d’altra parte, che abbiamo ancora il piacere d’incontrare e di salutare per le vie di Badolato. E come altri ancora. Mestieri scomparsi, irreversibilmente. Perché il mondo cammina, e non è possibile altrimenti. Peccato che non si sa dove va.
Tratto da La Radice
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