Pubblicata in data : 23/11/2004
Intorno ai primi decenni del XX secolo il rapporto fra arte e società cambia vistosamente e in questo particolare contesto sono proprio le cosiddette “avanguardie” letterarie ed artistiche che assumono grande importanza. Il termine “avanguardie” deriva dal linguaggio militare e si spingono avanti nell’esplorazione di territori sconosciuti. La loro caratteristica è che si presentano sulla scena come un vero gruppo organizzato, identificato da un proprio nome (un “ismo”), con un proprio testo programmato ( un “manifesto” ) e con proprie riviste. Si tratta quasi sempre di gruppi che coltivavano insieme la letteratura, il teatro, la musica e spesso il cinema, creando anche originali “mescolanze” tra le diverse arti. Queste hanno in comune il rifiuto delle tradizioni, praticano la sperimentazione di nuove forme come un valore in sé: in tutto ciò che è convenzionale e ripetitivo vedono l’asservimento ai gusti del pubblico borghese, la riduzione dell’arte a merce. Sentono però, allo stesso modo, in via del tutto contraddittoria, il bisogno d’imporsi all’attenzione di quel pubblico che disprezzano ed è proprio da qui che partono: l’azione di gruppo, gli atteggiamenti provocatori, l’intento di scandalizzare e fare chiasso toccando il culmine con le famose “serate futuriste” e le “serate dadà” che finivano poi in vere battaglie col pubblico stesso, tra urli pugni e lancio di ortaggi.
La polemica antiborghese è in nome della spontaneità creativa: come in molte filosofie contemporanee, l’istinto, l’irrazionale, la pura vitalità sono contrapposti alla razionalità della società moderna. “cambiare la vita” è il sogno di un po’ di tutti questi gruppi
e questo li porta spesso a porsi sul terreno della politica con esiti diversi: partendo, infatti, da analoghe posizioni di generico sovversivismo, i futuristi italiani approdano al fascismo mentre quelli russi aderiscono, insieme ai surrealisti francesi, alla rivoluzione comunista in modo travagliato. Il costante e continuo bisogno di “investire la totalità della vita” induce a sopravvalutare i comportamenti e i programmi rispetto alle opere e, nonostante il loro spontaneismo, le “avanguardie” accentuano la tendenza dell’arte moderna ad essere autoriflessiva, a esplicitare le poetiche. In effetti, in letteratura hanno lasciato un’eredità più di indicazioni, questioni aperte, che di opere di valore duraturo. La prima avanguardia italiana organizzata fu il “futurismo italiano” guidato da Filippo Tommaso Martinetti con tema che si incentrava, come abbiamo visto, sulla “lotta al passato” : “Noi vogliamo distruggere i musei, la biblioteche, le accademie”. Tutto ciò dimostrava il loro atteggiamento dinamico e vitalista volto esclusivamente all’esaltazione della violenza e il disprezzo della donna. C’era, comunque, alla base di tutto ciò, una forte volontà di adeguare le arti al ritmo della vita moderna industriale del tempo esaltata in toni di “acceso lirismo” : “canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche ecc…”. il futurismo italiano contribuì anche all’esaltazione della guerra, vista come “sola igiene del mondo”, della rivoluzione, del nazionalismo che poi sfociò in fascismo.
Particolare interesse trova in me la posizione dell’avanguardia russa che si poneva come unica vera creatrice della nuova arte per la futura realtà sovietica. Fino alla prima guerra mondiale il clima della letteratura europea era in prevalenza nazionalista e bellicista; dopo il conflitto e la rivoluzione sovietica, diventa prevalente invece lo schieramento al fianco del proletariato o l’opposizione al fascismo e al nazismo. Nel tempo, e forse in modo progressivo, i futuristi russi vengono emarginati da un regime sempre più autoritario e dogmatico che, nel campo artistico si orienta verso il “realismo socialista” e trova la fine della sua illusione con il suicidio del loro leader Majakovskij. A questo punto in Occidente gran parte della letteratura degli trenta comincia a schierarsi a sinistra e si scrivono molti romanzi sociali in molte parti del mondo teorizzando la “subordinazione della creazione artistica alla lotta proletaria” e si creano associazioni, “fronti”, comitati e si tengono congressi internazionali per la difesa della cultura e c’è chi abbandona la “deriva avanguardista”per farsi cantore della “rivoluzione”. Così, in questo nuovo contesto storico letterario, chi meglio riesce a fondere passione politica e creazione letteraria, arte di propaganda e stile personale, è il poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956). Il Nostro prende le distanze dall’avanguardia e aderisce al comunismo ed è proprio durante l’esilio cui lo costringe il nazismo che la sua poesia prende un tono decisamente più popolare con un linguaggio più esplicito ed energico che contrasta la poesia contemporanea. Importante è il suo lavoro inerente la creazione delle “scene” attraverso una nuova formula del “teatro epico”, un teatro che non vuole coinvolgere lo spettatore con “l’illusione di realtà né con i conflitti psicologici tipici del teatro borghese”, ma presenta in “modo ironico e distaccato storie esemplari che possono indurre il pubblico a riflettere sui temi morali posti dalla lotta di classe”.
COSì CAMBIA ANCHE LA POESIA:
La nuova poesia del Novecento non è del tutto estranea a questo nuovo movimento di idee ma nasce da “elaborazioni individuali più appartate” e trova le sue radici nel “simbolismo di Mallarmè” e a loro risale “quell’intonazione comune”, “quell’aria di famiglia” che circola in tanta poesia europea e non della prima metà del XX secolo.
Innanzitutto, si tratta di una poesia “lirica” e non tanto per la brevità dei suoi testi quanto per la loro estrema elaborazione formale. Questa poesia si è creata un suo linguaggio, isolato, fatto di continue “acrobazie formali”. È infatti un linguaggio fatto di metafore inusuali che inducono a realtà diverse, di “sinestesie”, effetti sonori, calcolate ambiguità di senso. È un linguaggio spesso oscuro e comunque non traducibile in termini ordinari, che non tanto esprime sentimenti o esperienze, quanto crea una realtà autonoma. Sembra che il poeta “ceda l’iniziativa alle parole” come d’altronde aveva voluto Mallarmè. In questo caso possiamo distinguere due linee di tendenza nella “lirica” presa in discussione: 1) la “poetica dell’analogia” che, imparentata col simbolismo, mira alla creazione di atmosfere evocative e sfumate che alludono enigmaticamente a temi psicologici o filosofici
2) la “poetica degli oggetti” crea invece un mondo fitto di cose materiali definite che vogliono essere il “correlativo oggettivo” di stati d’animo e pensieri e quindi simboli o allegorie di difficile decifrazione perché fondati su una cultura simbolica diffusa.
In entrambi prevale la tendenza all’astrazione lirica: le immagini sono infatti inserite in situazioni precise, i concetti non sono legati discorsivamente e si ha un gioco di associazioni, contrasti e movimenti il cui tema è taciuto o si può al massimo intuire.
È insomma una poesia “pura” non solo da elementi descrittivi e narrativi, ma anche dall’espressione diretta della soggettività del poeta. Questo tipo di poesia rifiuta o riduca l’importanza dell’ispirazione del poeta e sottolinea, invece, quella del “lavoro consapevole sulla parola” : “Un’arte consapevole al massimo grado”.
E COSì CAMBIò ANCHE LA LINGUA:
Continua la lenta diffusione dell’italiano come lingua d’uso , grazie all’intensificarsi di fenomeni importanti come l’aumento dell’istruzione, la crescita dell’industria e delle città, la grande migrazione oceanica che porta intere popolazioni ai nuovi contatti, alla necessità di scambi epistolari, a una conoscenza più italiana che locale. A tutto ciò si aggiungono nuovi potenti fattori: la grande guerra mette infatti a contatto milioni di combattenti di regioni diverse,dagli anni trenta poi arrivano i nuovi media. Il cinema , la radio, e la televisione poi diffondono a livello popolare i modelli di italiano parlato. Verso la metà del secolo quindi buona parte degli italiani puramente “dialettofoni” sono ormai in minoranza come del resto gli analfabeti e la stragrande maggioranza della popolazione è bilingue in quanto alterna il dialetto all’italiano. Ma l’italiano che si diffonde nell’uso orale non è quello “standard” della lingua scritta insegnata a scuola. Risulta piuttosto un “insieme di italiani regionali” fortemente influenzati dai vari sostrati dialettali. Si tratta di un fenomeno antico, che assume però una rilevanza nuove nel momento in cui si interessa per la prima volta la maggioranza della popolazione. Tutto ciò porta ad una conseguenza che segna profondamente la notevole differenza che rimane tra la lingua scritta e quella parlata. Ne possiamo cogliere l’effetto attraverso la narrativa di quest’epoca che con i suoi intenti realistici tenta, con grande difficoltà, di accostare la scrittura ai dialetti facendo parlare i propri personaggi in modo naturale e trovando un certo impaccio nell’adottare una lingua che sia nazionale e insieme di tono medio.
Autore Guerino Nisticò
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