Pubblicata in data : 23/11/2004
A differenza di Ungaretti, Montale rifiuta la “missione” della “poesia” e del “poeta” sostenendo che “la poesia, del resto, è una delle tante possibili positività della vita” e non crede “che il poeta stia più in alto di un altro uomo che veramente esista, che sia qualcuno”. Montale ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato e riduttivo di fronte alla propria opera e lui stesso diceva: “Ho sempre scritto da povero diavolo”. Non si è mai attribuito una missione e quindi un ruolo profetico. All’inizio della sua carriera ha cercato di ridurre drasticamente le possibilità della parola poetica con questa sua celebre affermazione: “Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Al termine e al culmine della sua straordinaria carriera, innalzata dal conferimento del premio Nobel alla letteratura, ha continuato a sostenere : “io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.
Sotto questa “ostentazione un po’ snobistica di modestia” c’è però la convinzione che la poesia sia qualcosa di molto importante; il rifiuto di una missione predicatoria comporta l’assunzione di un compito più profondo. Intorno ai primi anni cinquanta, nel pieno delle discussioni sull’ “impegno politico della letteratura” , il Nostro chiariva, riferendosi al proprio antifascismo : “Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni, io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte” e affermava che “l’argomento” della sua poesia e di ogni possibile poesia “era la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico”.
La poesia di Montale è segnata da un grande “male di vivere” ed alla sua origine sta un sentimento di “totale disarmonia con la realtà” che può essere interpretato a diversi livelli e soprattutto su un piano psicologico, trattandosi di “un in adattamento psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo; cioè a tutte le nature poetiche”. Si tratta appunto della “condizione umana” in generale, del “male di vivere” che diventa poi tema di una delle sue opere “Ossi di seppia”. C’è in quest’ultima un senso di angoscia dell’uomo moderno che si sente come abbandonato in un mondo destituito di significato e valore. Il Nostro, comunque, non accetta questa condizione di crisi e di rassegnazione e non rinuncia all’idea che la vita “deve, in qualche modo, avere un significato” e la poesia deve essere una ricerca ininterrotta di questo significato che perennemente sfugge. Una ricerca che prende spesso, nelle sue poesie, toni religiosi, ma di una religiosità priva di certezze, fatta di speranza più che di fede, di domande senza risposta. Secondo il Nostro, infatti, alla poesia interessa “la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale”. Nei versi di Montale si affollano situazioni che hanno la precisione di istanti di vita singoli ed irripetibili, immagini di oggetti colti nella loro concretezza materiale ed è proprio in questi dati concreti che il poeta riconosce i segni di una condizione umana votata all’assurdo che cerca instancabilmente “il miracolo” impossibile capace di aprire un varco al di là di quei limiti. In questo senso si può, dunque, parlare di una “poetica dell’oggetto” che è parte caratterizzante di tutta la poesia di Montale il quale porta avanti idee ed emozioni che si presentano materializzati in oggetti sensibili:(ad esempio)
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.”
( “Ossi di seppia” )
La poetica dell’oggetto si colloca pertanto su una linea ben distinta dalla poetica dell’analogia ungarettiana e cioè da quell’idea risalente a Mallarmè di una “lirica pura” intesa come gioco di suggestioni sonore che alludono a un vago mistero soprasensibile. Montale oppone a ciò la ricerca di sonorità aspre, atte a incidere nettamente i contorni materiali degli oggetti e ad esprimere la “disarmonia” del vivere. Alla lingua preziosa, astratta e selettiva, oppone un lessico che attinge a tutti i registri linguistici, dall’aulico, all’usuale, al tecnico, nello sforzo di definire ogni singola situazione poetica col massimo di aderenza.
“OSSI DI SEPPIA”
Gli Ossi di seppia che danno il titolo alla prima raccolta cono relitti scarnificati che il mare getta sulla riva; ad essi il poeta paragona i suoi versi, nati da un confronto fra il suo “io” e una natura grandiosa e potente, ma anche incomprensibile, sede del “male di vivere”. Ricorrono nella raccolta i paesaggi liguri aspri e assolati, battuti dal vento e di fronte alla natura il poeta manifesta a tratti un forte desiderio di identificarsi e perdersi nel fluire delle cose. Questa identificazione risulta poi impossibile ed il sentimento dominante è piuttosto quello dell’estraneità. Nelle poesie notiamo come un radicale dubbio filosofico investe il mondo e la sua coerenza e la sua consistenza reale. Anche nei momenti di maggiore comunione col paesaggio, il poeta cerca intorno a sé i segni “di un tarlo segreto che rode il mondo”, “l’anello che non tiene nella catena dei fenomeni”, lo spiraglio attraverso il quale scorgere al di là delle apparenze una realtà più vera:
“ […] scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.”
( “I limoni” )
Sul piano delle forme il Nostro è del tutto lontano dalle ricerche sperimentali del primo Novecento semplicemente perché li ignora. Quanto ai metri, si serve indifferentemente del verso libero e di forme chiuse ottocentesche come le quartine di endecasillabi. Quanto alle strutture compositive , non è toccato dalla poetica del frammento o della “illuminazione”: infatti, sia nei testi più brevi, sia in altri che sono veri e propri poemetti, la poesia mantiene una sintassi strutturata, una precisa articolazione di immagini e pensieri. Il tono è discorsivo: a volte si accosta ai livelli colloquiali per pura naturalezza espressiva; più speso è sostenuto, grazie anche ad un lessico raro e ricercato che non disdegna le aperture eloquenti. Soprattutto in “Ossi di seppia” possiamo notare una discorsività densa, nutrita in pari misura di forza di rappresentazione e di tensione intellettuale.
“SPESSO IL MALE DI VIVERE” ( da “Ossi di seppia” ) : ulteriori approfondimenti
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori che prodigio
Che non schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”
Come abbiamo visto “il male di vivere” è la definizione, da parte di Montale, della pena in cui è intessuta la vita umana; e questa si può incontrare ovunque, nel ruscello ostruito (strozzato) che, quasi soffocato, sembra assumere un senso di dolore umano. Si può ancora incontrare in una foglia morta e accartocciata sotto la “morsa del dolore”, oppure nel cavallo stramazzato a terra poiché vinto dalle fatiche e dall’età. Le immagini di “strozzato” e “stramazzato” danno anche un forte senso di violenza e crudeltà e sono frutto del famoso “correlativo oggettivo” che Montale aveva già sperimentato in molte sue opere e che accentuò dopo un’attenta lettura delle opere dello scrittore inglese Stearns Eliot.
Ma cosa s’intende per “correlativo oggettivo” ?
Bene, le immagini degli oggetti osservati vengono poste in diretta relazione col sentimento dell’ “io poetante”, con i diversi stati d’animo dello stesso, per cui una serie di immagini o una serie di oggetti viene ad essere eloquente di per sé se il lettore riesce a scoprire, in senso critico, la chiave e a capire in che rapporto sono messi l’uno con l’altro sentimenti e oggetti; un rapporto che non sarà di tipo logico e precisamente di tipo espressivo.
Alla fine della poesia il poeta sostiene che non era stato capace di conoscere altro bene, appagamento dell’anima, oltre al miracolo offertogli dalla indifferenza dell’unico bene della vita: l’indifferenza; e che bisogna cercar invece di essere statua, roccia di fronte al dolore o nuvola o falco alti nell’aria, del tutto staccati dalla terra e del suo male.
Autore Guerino Nisticò
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