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Titolo Rubrica : PIER PAOLO PASOLINI : UN POETA, UN UOMO, UN COMUNISTA, UN REGISTA


Pubblicata in data : 23/11/2004



BREVE NOTA BIOGRAFICA
PIER PAOLO PASOLINI è nato a Bologna nel 1922. Ha trascorso buona parte della sua fanciullezza e giovinezza nel Friuli, a Casarsa, paese originario della madre. Anni in cui dovette continuamente adattarsi agli ambienti nuovi in cui il padre, ufficiale, veniva di volta in volta trasferito da città a città per motivi di lavoro e quindi per i suoi spostamenti da militare. Frequenta appassionatamente la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Bologna e si laurea in lettere e insegna per diversi anni in scuole private fino al 1949. Si trasferisce poi a Roma insieme alla madre, per la quale nutriva un amore “vero” “puro”, quasi “inaudito”, e vive per diversi anni in un appartamento alla periferia dell’Eur ed è proprio in questo nuovo contesto che vive sulla propria pelle un nuovo violento adattamento che lo matura come letterato, come regista e come scrittore. Abbiamo visto come il suo legame sia intrinseco non con la Roma ufficiale e borghese bensì con quella plebea e sottoproletaria delle borgate. Un ambiente assai vario e complesso dal punto di vista sociologico e linguistico interamente “adatto” al temperamento e agli interessi artistici di Pisolini.proprio da quest’ambiente trae la sua incredibile ispirazione per le sue opere “più impegnate” e discusse (sia narrative che poetiche) : “Ragazzi di vita” , “Una vita violenta” , “Le ceneri di Gramsci” con impegni morali ed artistici dediti alla formazione della sua carriera cinematografica che segnato il suo successo a livello nazionale. Il Nostro viene maggiormente ricordato per la sua attività polemica e corsara contro il “Palazzo del potere” e contro la società neocapitalistica caratterizzata da un’attività saggistica segnata fondamentalmente da “Scritti corsari” del 1975 che raccolgono tutta una serie di articoli e saggi comparsi in riviste e quotidiani del tempo in cui lui stesso dichiarava una certa nostalgia per la civiltà contadina ormai scomparsa e quindi una certa simpatia per il Terzo Mondo che riusciva, con grande sforzo, a resistere al “consumismo” sfrenato e immorale del mondo moderno corrotto ed omologato nel suo conformismo generale. Muore tristemente ed in una situazione incredibilmente irrealista e inquietante nel 1975 ucciso e massacrato da un presunto omicida, condannato e arrestato subito dopo il fatto, ma ancora oggi il “suo caso” suscita discussioni e dubbi.

LA PRIMA STAGIONE DI CASARSA

Per tracciare la “storia dello svolgimento della personalità” di Pasolini, bisogna seguire l’ordine cronologico di composizione e non di pubblicazione delle sue opere.

La vocazione poetica iniziale di Pasolini, come visto e studiato durante il corso, fu assai precoce perché, come lui stesso racconta, parte dalla tenera età di sette anni con un componimento in versi dedicato alla madre e caratterizzato da una non esatta consapevolezza linguistica. Già nel 1942 pubblica a sue spese il primo volumetto di versi intitolato “Poesie a Casarsa” in dialetto friulano. In seguito lui stesso spiegò le ragioni di quella scelta linguistica come una forma di libertà in un periodo storico-letterario segnato da una profonda crisi linguistica. Lo stato d’animo del poeta era, infatti, quello di chi vive in una civiltà giunta ad una crisi linguistica, al desolato e violento “je ne sais parler” rimbaudiano. Uno stato d’animo che è nostalgia per il mondo dell’infanzia, una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, candidamente e torbidamente. Il suo regresso, infatti, da una lingua all’altra , anteriore ed infinitamente più pura, era un regresso “lungo i gradi dell’essere”. Questo tipo di regresso è “reimmersione” per cui conoscere equivaleva ad esprimere, un atto d’amore filologico, un’adesione sensuale a suoni parole che la lingua dialettale offre con una particolarissima necessità di conoscere.

Il rapporto che lega Pasolini alla terra, al paesaggio e alla lingua del Friuli è rimasto sempre un rapporto istintivo, sensuale come “un legame tra la madre e il mondo degli affetti infantili, una sorta di rifugio nel seno materno quasi come una protezione dinanzi alla esperienza triste del primo contatto con gli adulti e con la borghesia dell’ultimo periodo fascista”.

Dopo queste prime poesie dialettali, in cui egli dimostra il suo talento artistico e il suo “carattere socialmente impegnato”, avverrà in lui una svolta poetica segnata da un altro periodo, come già visto e trattato nella breve introduzione biografica, caratterizzato da altre grandissime opere narrative e poetiche, studiate durante il corso, come “Le ceneri di Gramsci” , “L’usignolo della Chiesa cattolica” , “Ragazzi di vita” .

“RAGAZZI DI VITA” (Lettura personale del romanzo e approfondimenti con esercitazioni varie)

La creazione di questo romanzo si colloca all’interno di una “condizione storico-sociale” dell’ambiente delle borgate romane dei primi anni cinquanta e, fortemente segnato, dal trasferimento dell’autore stesso dagli ambienti originari materni a quelli della Roma del 1949. Tutto ciò rappresentò per Pasolini un’importanza fondamentale nella sua narrativa in quanto “trauma violento e violenta carica di vitalità”. Secondo Pasolini esiste un popolo che vive fuori dalla storia perché è stato escluso dalla società borghese e anche da coloro che lottano per il popolo contro la società borghese: questo è il proletariato e sottoproletariato delle borgate della periferie e delle borgate romane. Questi “sventurati” si sono totalmente estraniati dalla vita civile e né la società borghese né il Comunismo, come vedremo anche in alcune splendide poesie de “Le ceneri di Gramsci”, riusciranno, secondo Pasolini, ad aprire un dialogo con quel mondo. Soltanto l’amore vi potrà penetrare e il poeta potrà viverne l’esperienza soffrendo con questi poveri disperati. La storia aspra e violenta di “Ragazzi di vita” (1955) è quella di alcuni ragazzi di borgata della malavita romana e va dalla loro infanzia alla loro giovinezza incentrata all’interno di un’analisi storica, da parte dell’autore, ben precisa e caratterizzata dall’arrivo delle truppe anglo-americane fino allo scoppio della guerra in Corea. Questa condizione storico-sociale ci permette di intendere al meglio lo “spirito di pietà e solidarietà” con cui Pasolini ha guardato a quella gioventù disperata, abbandonata, emarginata da tutto e soprattutto dalla società a tutti i livelli politici.

Questo romanzo è ancora caratterizzato dal suo “valore documentario” , con la descrizione di diverse zone di Roma e soprattutto delle sue periferie e borgate. La zona di Donna Olimpia era una delle periferie più importanti di Roma all’epoca dove, durante il periodo fascista, erano state costruite moltissime case popolari a mò di grattacieli, relegandovi gente sfollata ed emarginata dalla società. Negli anni raccontati da Pasolini quella zona era poco abitata e piena di sterpi con montagne di immondizia , dimenticata dal mondo. Pasolini che abitava vicino ebbe così modo di avvicinarsi e conoscere bene l’ambiente che frequentavano quei ragazzi di vita che lui stesso racconta ma in modo del tutto autentico e vero perché quegli stessi ragazzi erano autentiche e vere espressioni della realtà romana di quegli anni. Un’ altro aspetto molto interessante, secondo il mio parere, è la tecnica sperimentale usata dal Pasolini nel rappresentare e raccontare la vita “ai limiti”di questi ragazzi di borgata, attraverso un modo direi quasi simile ad un vero e proprio “documentario” delle loro abitudini, dei loro istinti, del loro coraggio, delle loro vicissitudini quotidiane, delle loro parolacce, delle loro espressioni gergali e della loro miseria. Importante, da notare, penso sia anche la mancanza di una “trama unitaria”, di un personaggio centrale attorno cui graviti l’azione del romanzo stesso. Esso è in effetti composto da una serie di avventure, ruberie, “bricconate”, di piccole e misere cose che questi ragazzi compiono quasi per un bisogno della loro irresistibile vitalità. Quest’ ultimo concetto spiega benissimo l’intento dell’ autore che era quello di “documentare” esclusivamente, attraverso il racconto, delle vicende e di trascrivere dei comportamenti tipici dei ragazzi di periferia e di borgata del sottoproletariato romano del suo tempo. Tutto ciò avviene anche attraverso l’uso di un linguaggio particolare: il dialetto romanesco fatto da espressioni gergali, bestemmie, da discorsi lasciati a metà ( es: “Vaffan…Ah li mortaci tua!). C’è, da parte di Pasolini, un gusto “sensuoso e carnale” in queste parole ed espressioni gergali tipiche del sottoproletariato romano e quindi un gusto della parola popolare e gergale ma allo stesso tempo “ricercato e molto prezioso”. Pasolini spiega questo attraverso un suo scritto del 1957, che io ho avuto la possibilità di leggere durante questi mesi di studio, dove lui stesso spiega :

“Per far parlare le cose, bisogna ricorrere a un’operazione regressiva; infatti le cose – e gli uomini che ci vivono immersi, sia proletari, nelle cose intese come lavoro, lotta per la vita; sia borghesi, nelle cose intese come totalità e compattezza di un livello culturale – si trovano dietro allo scrittore filosofo, allo scrittore-ideologo. Tale operazione regressiva si traduce quindi in un’operazione mimetica ( dato che i personaggi usano un altro linguaggio, rispetto a quello dello scrittore, atto a esprimere un altro mondo psicologico e culturale ). L’operazione mimetica è poi l’operazione che richiede le più abili e accanite ricerche stilistiche ( data la necessaria contaminazione di linguaggio, quello del narratore e quello del personaggio, lingua e dialetto ). Sicchè risponderei, in conclusione: bisogna lasciar parlare fisicamente, immediatamente le cose:ma per lasciar parlare le cose, occorre essere scrittori, e anche vistosamente scrittori.” ( “Nuovi argomenti” )

In questo senso il “documentario” di Pasolini non risulta soltanto un’indagine e un’inchiesta sociale sui bassifondi romani di borgata e periferia; non era soltanto un “atto d’amore”, che lo spingeva ad entrare nel mondo del sottoproletariato romano escluso dalla storia e dalla civiltà, ma era una vera e propria ricerca stilistica ed un esperimento tecnico narrativo nuovo grazie al quale portò avanti il suo “progetto sperimentale”. Pasolini si serve del dialetto romanesco per riprodurre a livello narrativo la vitalità del sottoproletariato e tende, spesso, ad immedesimarsi, come voce narrante, nella realtà più regredita dello stesso sottoproletariato contaminando non solo nei dialoghi ma anche nel discorso descrittivo, la sua lingua letteraria, pur di ritrarre nella sua genuinità gergale l’energia dei ragazzi di vita. Il dialetto romanesco, utilizzato in modo naturale, serve appunto come unico mezzo d’immedesimazione con la realtà popolare che lui stesso racconta drammaticamente ed inoltre per rappresentare, con grande efficacia, l’innocenza di questo popolo disperato e “fuori dal mondo” (esempi: “ciufega”, “carruba”, “fatti li c….”, “pischelletti”, “so c…sua”, “vecchi paragli”, “lemme lemme” ecc…..). Così, tanto più valida la sua operazione di “sperimentalismo linguistico” appariva, quanto più egli riusciva a contaminare di quel gusto gergale del parlato popolare anche la sua voce narrante all’interno del romanzo, dato che la narrazione procede quasi sempre focalizzata dal punto di vista dei suoi personaggi, e il discorso narrativo è strutturato in dialoghi realistici fatto da un “linguaggio istintivo”che raffigurava al meglio“l’innocenza primitiva”dei“suoi ragazzi”.

Molto significative ho trovato invece le pagine riguardo il “tema della morte” che in Pasolini resta, anche nei suoi film più importanti, un tema centrale, visto e focalizzato questa volta dal punto di vista dei ragazzi protagonisti del suo romanzo. Prendiamo spunto dalla storia di Amerigo: due ragazzi di vita discutono tra di loro sulla morte di Amerigo, beccato dalla polizia, mentre giocava a “zecchinetta” in una bisca clandestina e dopo esser stato capace di liberarsi dalle mani dei carabinieri era rimasto ferito ad una spalla per un grande “zompo” di due tre metri che aveva fatto per salvarsi. Ciò nonostante, l’aveva fatta ad arrivare fin sulla sponda dell’Aniene; lì stavano per acchiapparlo, ma lui, “sanguinante com’era”, s’era buttato in acqua per attraversare il fiume; ripreso dai carabinieri fu portato zuppo di sangue e di fango al commissariato e poi all’ospedale. Poi, dopo alcuni giorni di degenza, si era buttato giù dalla finestra del secondo piano per sfuggire al controllo della forza pubblica. E dopo un’agonia di una settimana, “finalmente se n’era andato all’alberi pizzuti” e i funerali si sarebbero celebrati il giorno dopo. Il Riccetto vuole andare a quel funerale e si reca a casa di Amerigo dove “il cadavere stava disteso sul letto col vestito blu nuovo, la camicia bianca e le scarpe nere. Gli avevano incrociato le braccia sul petto, anzi sul doppiopetto di cui da un par di domeniche era tanto orgoglioso, andandosene per Pietralata con la camminata cattiva. I soldi se l’era procurati facendo una rapina in via dei Prati Fiscali”. Insomma, Amerigo era un vero ragazzo di vita temuto e rispettato da tutti; e adesso che era morto, “s’era lasciato mettere pazientemente, come una vittima, le mani in croce” e pareva si fosse addormentato e “faceva ancora paura. Pisolini continua, nonostante la sua morte, a descrivere l’energia e la grande vitalità di Amerigo che ancora da morto sprizza impulsi di vendetta. Infatti, nella stanza del morto, lo zio giovane di Amerigo, Alfio Lucchetti, che tre anni prima aveva dato una baionettata nella pancia del padrone del bar, e che adesso si stava a rovinare per una prostituta, diceva poche parole allusive di vendetta. “Stava calmo e risentito, covando, in fronte a tutti, il segreto che tutti più o meno avevano svagato in borgata: c’era, dietro la morte d’Amerigo, tutto un insieme di cose la cui luce minacciosa si rifletteva su ogni faccia lì attorno”. “N’era schiarata la faccia di Alfio, grigia di barba, le facce degli alti zii e cugini, compresi nel senso del dovere e nel silenzioso rancore che li faceva le figure più importanti di Pietralata, decisi a non parlare, a serbare tra loro in famiglia, i commenti sullo stato di cose che s’era formato con la morte di Amerigo”.

In Pasolini non è quindi violenta solo la vita di questi ragazzi di borgata ma anche e soprattutto la “morte” se accumula dietro di sé tanto risentimento e senso di vendetta. Questi ragazzi non riconoscono altra legge che quella della vendetta personale, che si scaricherà su chi ha fatto la spia su quella bisca, in cui era stato arrestato arrestato Amerigo. Nella descrizione Amerigo s’ingigantisce fino ad assumere i contorni di un eroe popolano e il suo suicidio si configura come “l’estremo grido di ribellione di odio contro la società”, l’esplosione di una ribellione “disperata nella sua solitudine e nella sua ferocia, tanto più feroce quanto solitaria...”. Pisolini svela in questo modo, sotto quell’isolamento orgoglioso e indifferente dei ragazzi di vita, sotto la sfida della “caciara” e del “bercio”, la cupa solitudine e l’insanabile disperazione di un mondo popolare abbandonato al suo inferno. Non importa ai suoi parenti se fosse giusto il comportamento di Amerigo, ladro, scippatore e giocatore d’azzardo; importa soltanto il prestigio della loro energia vitale, la loro forza fisica con cui si impongono sugli altri. Loro non fanno parte della “storia civile” e anche i carabinieri o la polizia sono considerati, dal loro punto di vista, come degli intrusi della legge che non si fanno i cavoli loro e stanno a rompere intromettendosi nel loro mondo emarginato. Anche la benedizione del prete, chiamato a benedire il cadavere di Amerigo, venuto così di fretta e partitosi così alla svelta, appare quasi un’intrusione tollerata più per consuetudine che per convinzione religiosa, dato che anche Cristo non è mai penetrato nel loro mondo. Riusciamo a cogliere in modo molto efficace tutto ciò grazie attraverso la voce narrante dell’autore come se parlasse uno dei ragazzi di borgata presenti alla scena: “Il prete entrò dentro in casa, fece quello che doveva fare, e poco dopo riuscì lui con dietro i suoi cuccioletti”. Attraverso questa descrizione Pisolini riesce a “demolire anche la sacralità della morte” oltre la dignità stessa della vita di questi ragazzi; li ha descritti talmente emarginati e irrecuperabili che la sua visione risulta alla fine, a mio parere, molto drammatica e addirittura pessimistica. Basti pensare allo squallore dell’accompagnamento funebre, alla macchina che trasporta il morto, allo squallore lurido e selvaggio del paesaggio, all’indifferenza degli amici e dei parenti del morto, che non sanno neanche piangere. Il pessimismo di Pasolini si riflette proprio su questa umanità derelitta e disperata che è scesa ad un livello così regressivo che pare difficile riscattarla dall’emarginazione e dall’inferno che il loro triste destino gli riserva.

I MIEI STUDI SU “LE CENERI DI GRAMSCI” (letture, interpretazioni, riflessioni)

Dopo “Ragazzi di vita”, Pasolini pubblicò “Le ceneri di Gramsci” che rappresenta ancora oggi la raccolta più importante delle sue poesie più significative. Egli stesso preciserà la determinazione del nuovo linguaggio che non sarà più il romanesco: “La stessa passione che ci aveva fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere sperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e, impone, dunque, sperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo”. La “problematica umana” contenuta in questa splendida raccolta di poesie ci induce a meditare sul fatto che il suo “progetto sperimentale” non è stato determinato soltanto da un’esigenza stilistica e linguistica, bensì da una profonda analisi dei problemi sociali e politici che in quegli anni di crisi tormentavano la sua esistenza. Basti pensare nuovamente al suo trasferimento nel 1949 a Roma con le esperienze sofferte e con le sue privazioni che determinarono il lui un trauma ben più complesso che la presa di coscienza della sua adolescenza friulana, ma anche perché, proprio in quegli anni, in cui egli soffriva gravi disagi economici e difficoltà della vita, l’intera sua esperienza esistenziale si andava consumando con esiti terrificanti non certo solo sulla coscienza dei comunisti e dei partigiani socialisti ma innanzi tutto sul piano della vita ufficiale del Paese, della sua nazione, dell’Italia. In questo preciso momento di crisi Pisolini cerca di ancorare la sua passione per la povera gente ad una nitida filosofia della ragione, ad un’ideologia chiarificatrice. Il marxismo gli fornisce subito la chiarezza dei problemi sociali e collettivi e tutto questo possiamo notarlo benissimo in un suo passo famoso de “Le ceneri di Gramsci” :

“Vivo nel non volere

del tramontato dopoguerra: amando

il mondo che odio - nella sua miseria

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo

della coscienza….

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere

con te e contro te; con te nel cuore,

in luce, contro te nelle buie viscere;

- nel pensiero, in un’ombra d’azione -

mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;

attratto da una vita proletaria

a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebbrezza della nostalgia….

Come i poveri povero, mi attacco

come loro a umilianti speranza,

come loro per vivere mi batto.”

Ci si rende subito conto che Pasolini ha sofferto nella carne e nel pensiero o, meglio ancora, nella passione e nella ideologia, il dramma della vita proletaria, sin da quando, ancora ragazzo, vedeva le speranze deluse dei suoi amici friulani che si recavano all’estero come emigranti in cerca di lavoro e ritornavano malati e delusi senza aver realizzato il loro tanto agognato sogno di riscatto sociale. Ma del proletariato Pasolini non canta la sua millenaria lotta, né la sua coscienza, bensì la sua natura, la sua allegria, la sua forza originaria. C’era stato di mezzo tra la sua passione e la sua ideologia non solo la sconfitta della Resistenza nella politica ufficiale italiana, ma anche la crisi del movimento operaio mondiale delineatasi dopo la morte di Stalin e per giunta l’amarezza sconvolgente dei “fatti di Ungheria” nell’autunno del 1956. Per queste ragioni, l’adesione al materialismo marxista non potrà coincidere on la sua “pacificazione ideologica e politica e poetica”. Al contrario, come sostenne un critico del tempo, “la sua posizione, nel rifiuto di ogni prospettivismo ottimistico, finirà per rifiutare anche la speranza e la fiducia nella lotta di un popolo il cui clamore non è che silenzio, che è ciò che non sa, di un popolo, dunque, visto sempre come sottoproletariato a livello di natura, pure e nascosta forza che deve ancora irrompere nella storia con tutta la sua disperazione”.

Quest’ultimo concetto segna fortemente il contrasto ideologico con il Partito Comunista, in quanto,

secondo il Nostro, il poeta deve esaltare i valori di quel nuovo mondo che l’umanità progressista si sforza di creare, bensì il popolo è destinato a rinnovare la sua storia, ma con la sua incoscienza, con la sua inconsapevole semplicità, con la riserva inesauribile della sua forza, che potrà esplodere nella storia con tutta la carica della sua passione millenaria:

“Ragazzo del popolo che canti

qui a Rebibbia sulla misera riva

dell’Aniene la nuova canzonetta….

nella tua incoscienza è la coscienza

che in te la storia vuole, questa storia

il cui Uomo non ha più che la violenza

delle memorie, non la libera memoria…

E ormai, forse, altra scelta non ha

che dare alla sua ansia di giustizia

la forza della tua felicità,

e alla luce di un tempio che inizia

la luce di chi è ciò che non sa.”

( Il canto popolare )

Tranquillamente possiamo notare come “Le ceneri di Gramsci” tenda a porre in discussione le contraddizioni della nostra società, riflettendole con doloroso “stupore della coscienza del poeta”, il quale ha espresso questa condizione di spirito come confessione aperta in una poesia sostenuta sempre da una singolare lucidità razionale facendo pesare , con grande chiarezza, il senso della tradizione letteraria nella sua poetica. La passione di Pisolini, prima ancora di diventare ideologia, si è espressa come sofferta poesia di questa insoluta contraddizione dell’uomo moderno, combattuto tra il dolore per la miseria della povera gente e l’obbligo morale di redimerla, di aiutarla a uscire dal suo stato di annosa sofferenza. Contraddizione, del resto, resa ancora più grave dal fatto che egli è convinto che l’ideologia marxista non potrebbe fare uscire quell’umanità sottosviluppata dal suo ansioso stato di miseria. Ed è questo stato di disperazione interiore che rende poetica questa importante raccolta di “originali poesie umane”. Tutto il dramma interiore del poeta e dell’uomo moderno è in questo essere con Gramsci e contro Gramsci: “ con Gramsci nella astratta intelligenza, contro Gramsci nelle buie viscere, nei sentimenti, nelle passioni. Sentire la fine della civiltà borghese individualistica e non riuscire a staccarsi dalla suggestione dell’io; rifiutare il vecchio mondo, ma non sapere ancora prefigurare il nuovo. La disperazione è, dunque, la musa di Pisolini: impotente alla scelta, egli è dilaniato, nello stesso tempo, dall’odio e dall’amore.”

Con questa raccolta, Pasolini ha chiarito a se stesso la propria crisi, ma ha rifiutato anche di volerne uscire, non per una delusione ideologica o per passione, ma perché non è, secondo lui, la poesia in crisi ma la crisi stessa è in poesia o meglio si esprime, al meglio, in poesia. Infatti ogni possibile risoluzione ideologica significherebbe la morte della poesia; perciò il suo dramma passionale e ideologico rimarrà sempre irrisolto, come notiamo nei versi che seguono, per rimanere sempre poetico:



“Mi chiederai, tu, morto disadorno,

d’abbandonare questa disperata

passione di essere nel mondo?”



Lo stato d’animo di cui Pisolini si è fatto interprete è quello dell’uomo moderno che denuncia e confessa la sua coscienza in crisi, la sua insuperabile disperazione, sia quando angosciato guarda “gli operai che innalzano il loro straccio rosso di speranza, sia quando li spinge all’errore, al religioso errore, sia quando si rivolge ai capi politici che si sono assuefatti, essi servi della giustizia , leve della speranza, al calcolato parlare, al voluto tacere, all’esaltare senza amore, a necessari atti che umiliano il cuore e la coscienza, servendone il popolo in ciò che esso non capisce e non chiede”. E così tutto il pessimismo dell’uomo moderno, tutta la sua infinita alienazione esistenziale, sembra ridimensionarsi come disperazione generale, sia sul piano politico sia su quello sociale, in una ormai certa negazione suprema di una possibile “redenzione” o “riscatto”.

Scendendo ora nel “vivo” di alcuni versi di questa raccolta tenterei di spiegare, con ulteriori approfondimenti, i concetti centrali che sono focalizzati all’interno della sua “confessione”. Pisolini stesso ricorda nella sua poesia che Gramsci, padre fondatore del comunismo italiano, si trova sepolto a Roma in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e il Testaccio, non lontano dalla Tomba di Shelley. La descrizione di una giornata uggiosa e davanti alla tombe di Gramsci ( come abbiamo visto non molto distante da quella di Shelley: tutto ciò è piuttosto significativo perché tra questi due grandi personaggi è contesa la vita di Pisolini ) il Nostro poeta riflette sulla sua vita ormai da uomo maturo che si lascia alle spalle le vicissitudini degli anni romani e si trova ora “vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrina”. È proprio in questa occasione che il Nostro tenta di fare il punto della sua vita ormai cambiata e tutto l’ambiente intorno a lui sta cambiando, anche l’Italia cambia. Pasolini non “ama” questi mutamenti, però, come appreso durante lo studio delle “modernizzazioni”, è il primo a capirli e cerca attraverso questi suoi splendidi versi di esprimere il suo dolore accentuandolo, in seguito, con l’altro suo famoso poemetto “Il pianto della scavatrice” dove esiste un pianto di un dolore disperato.

È in questo contesto particolare incerto e dubbioso che il Nostro si pone delle domande molto importanti pensando soprattutto quale sarà il “suo posto” di uomo e intellettuale in un mondo che sente ideologicamente distante:

“…….e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento

e ingenuo amore sensuale

così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso riferiva il male

borghese di me borghese: e ora, scisso

- con te – il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi mistico

disprezzo, la parte che ne ha il potere?”

In relazione alla crisi ideologica e culturale che stava vivendo il Nostro si domanda quale sarà il suo ruolo di “comunista intimamente antiprogressista” dichiarando la sua distanza dal “compagno – fratello” Antonio Gramsci continuando:

“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere

con te e contro te; con te nel cuore,

in luce, contro te nelle buie viscere;”

C’è quasi una dissociazione. Pisolini è “comunista” nel cuore e in luce ( la luce della ragione ) ma tutt’altro nelle sue buie viscere. Nei versi che seguono dichiara poi cosa lo “bruci intimamente” :

“attratto da una vita proletaria

a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è la sua forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebbrezza della nostalgia,

una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia

giusto ma non sincero, astratto

amore, non accorante simpatia…”

Troviamo qui la sua vera passione per una vita ai margini della storia e dalla quale emerge e trova posto e voce il suo “populismo” che è molto più forte e radicato dello scellerato consumismo. È tutto ciò che rappresenta la “religione” di Pasolini che lui stesso vede minacciata dal “mostro-progresso” ed è ciò che lo impedisce ad essere un cero ed autentico “comunista ortodosso”. Ciò gli fa sentire vicino tutti coloro i quali, come lui, amano e guardano al vita con una vena e con una passione romantica. Così, affianco alla luce e la ragione rappresentata da Gramsci, si profila l’immagine e la figura importante di Shelley:

“…Ah come

capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,

tra i cipressi stancamente sconvolti,

presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley… Come capisco il vortice

dei sentimenti, il capriccio (greco

nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco

celeste del Tirreno; la carnale

gioia dell’avventura, estetica

e puerile….”

Siamo ormai alla conclusione della “confessione” di Pasolini dove dichiara esplicitamente la sua eresia a tal punto che tanti lo rimproverarono di esser votato allo scandalo, poiché vanitoso e sensuale e dove “strappando il buio delle viscere” sostiene, ritornando agli ultimi versi della

IV sezione della poesia presa in discussione, che gli sarebbe comunque rimasta la “luce” anche se:

“Come i poveri povero, mi attacco

come loro a umilianti speranze,

come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante

mia condizione di diseredato,

io possiedo: ed è la più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato

più assoluto. Ma come io possiedo la storia,

essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?”



“IL PIANTO DELLA SCAVATRICE” (lettura, parafrasi, approfondimenti)

Soltanto dopo due anni Pasolini sembra, come abbiamo visto precedentemente, perso tutte le sue speranze ed entra attraverso questo poemetto, roba da farti venire i brividi, nel vivo della sua crisi esistenziale, nello stato di crisi che viveva ormai da intellettuale del tempo, scrivendo:

“Solo l’amare, solo il conoscere

conta, non l’avere amato,

non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato

amore. L’anima non cresce più”

è presente in questi versi l’essenza della “filosofia” pasoliniana che mette al centro della sua importanza la differenza tra “amare e non aver amato”, tra “conoscere e non aver conosciuto”, tra “essere e non essere” e pertanto tra “passato e presente”.

Continuando a leggere i suoi versi notiamo come lui ritorni, con la memoria, alle esperienze dei primi anni romani quando “era povero come un gatto del Colosseo” e viveva in periferia vicino il carcere di Rebibbia. “Il pianto della scavatrice” rappresenta infatti una rievocazione dei tempi del suo “approdo alle famose borgate romane” dopo la sofferta separazione dal “mitico” mondo contadino del Friuli. Due mondi completamente diversi e apparentemente contrastanti ma accomunati dalla stessa posizione di marginalità rispetto alla storia, alle idee che hanno trasformato le società umane; mondi entrambi definiti come riflesso e specchio della stessa emarginazione e solitudine del poeta. Un mondo quello romano fatto da anni duri e difficili ma, allo stesso tempo, anni “felici” e “utili” per la sua “formazione” socio-culturale e letteraria. Nella poesia presa in esame notiamo come Pasolini cerchi di contrapporre a quest’ultimi anni quelli vissuti, in seguito, in un quartiere borghese e da borghese. È proprio qui che scompare, inoltre, il “richiamo dei sensi” simboleggiato, attraverso Shelley, ne “Le ceneri di Gramsci”. La figura di Shelley non appare più molto sicura e il suo ruolo si ridimensiona fortemente poiché, ormai, i frutti della sua “illusione” sembrano finiti. Qualcosa è cambiato in Pasolini perché il nostro poeta vede infrangersi, distruggersi e annientarsi quel mondo antico a cui era molto legato, un mondo ormai macerie del lavoro martellante ed inarrestabile delle mille scavatrici. In conclusione azzarderei delle sostanziali differenze tra “Le ceneri di Gramsci” e “Il pianto della scavatrice”: nel primo caso troviamo una “confessione” molto chiara dell’ideologia del poeta e della “religione del popolo” mentre nel secondo caso troviamo un’espressione sofferente del dolore, che tormenta il poeta, per “il tempo ormai andato della sua gioventù” e di un mondo che non esiste più perché vittima di un “cambiamento generale e veloce” che coinvolge tutta l’Italia. Un tempo ed un mondo coinvolti dal “progresso” e da quel “consumismo scellerato” che allontana il Nostro dalla sua stessa ideologia e lo pone in forte discussione e polemica con il suo stesso tempo. Una discussione così accesa e sofferente che gli fa vivere una grande crisi esistenziale, culturale e sociale, vista sia da intellettuale e sia da uomo.



PARAFRASI della VI PARTE de “IL PIANTO DELLA SCAVATRICE”
Nel calore ardente del sole mattutino, in un paesaggio deserto, che risplende oramai sfiorando i cantieri di lavoro sulle finestre delle case surriscaldate dallo stesso calore - si sentono delle intense vibrazioni, provenienti probabilmente dagli stessi cantieri di lavoro, che cancellano quel silenzio che sa disperatamente di vecchio come il latte vecchio che puzza, di piazze e luoghi vuoti senza nessuno, vuote quasi all’inverosimile, e sanno di semplicità, ingenuità.

Pian piano, verso le sette, quelle intense vibrazioni aumentano a pari passo con il passar delle ore ed il crescere del giorno. A quell’ora si scorge in piazza la scarsa presenza di dodici operai anziani, esperti da tempo nel loro lavoro e vestiti con indumenti vecchi e sudici, con delle canottiere e maglie di lavoro infiammate di passioni e grandi lotte e sofferenze; le cui voci si sentono poco, le cui battaglie e sofferenze di lavoro fatte in quei cantieri di case e palazzi in costruzione sembrano venir meno e quindi cancellarsi in quel fremito inarrestabile di vibrazioni intense.

Ma, tra gli insistenti e continui rumori provenienti dalla scavatrice, che sta lavorando ciecamente sgretolando e afferrando qualsiasi cosa frantuma senza rispettare nessun principio o criterio, all’improvviso viene fuori un grido forte ed inaspettato che continua a ripetersi in modo inaudito, un grido così forte che non sembra neanche umano e che gradualmente arriva ad una sua fine.

Poi pian piano riviene fuori nuovamente nel bagliore accecante che riflette tra i palazzi che sono attorno quasi simile a quello iniziale e quasi uguale a quello di una persona oramai prossima alla morte e vicino al suo ultimo istante di vita e che solo chi si trova in questa situazione può emettere così forte in un ambiente di lavoro dove il sole continua a splendere in modo accecante e del tutto indifferente al problema anche se mitigato da una leggera brezza di mare.

A gridare, ormai straziata da mesi e da anni di inarrestabile e continuo lavoro, è la vecchia scavatrice che è accompagnata dal silenzioso lavoro dei “suoi scalpellini” in un paesaggio caratterizzato da scavi di terra appena finiti e nel quale tutto il quartiere si trova coinvolto. Ne è profondamente coinvolta tutta la città, anche se entusiasta e colpita positivamente da tutto ciò, e addirittura tutto il mondo.

Entrambi piangono su ciò che è distrutto e cancellato per sempre e su ciò che potrebbe cominciare sulle sorti di questa incredibile fine. Ciò che prima era un grande spazio verde diventa invece adesso, per colpa del progresso e dello sviluppo edilizio, un cortile per questi nuovi palazzi bianco come la cera e quindi chiuso in uno splendore segnato profondamente da un grande risentimento e da forti nostalgie; ciò che prima era solo una serie di strutture disposte in modo irregolare ora diventa un vero isolato di case e palazzi urbanisticamente regolare e ordinato e tutto ciò crea delle situazioni di sconforto e di dolore perché sostituisce il “vecchio mondo” tanto amato.

Si piange, pertanto, ciò che, attraverso questo inarrestabile progresso, cambia e cerca di evolversi positivamente per un futuro migliore. E questa speranza di progresso e di un futuro migliore non smette mai un solo istante, nonostante tutto, a ferirci e a rattristarci: è qui, presente e viva, che continua a vivere in ogni nostra attività quotidiana facendoci avere angoscia anche nella stessa forza di volontà e fiducia che alimenta la nostra stessa vita e soprattutto “nell’impeto gobettiano” liberal - borghese verso questi operai distrutti dal sudore del loro lavoro che, capaci di subire le vicessitudini della vita, non trovano neanche la forza di far sentire la loro voce nonostante riescano lo stesso, nel loro ambiente proletario e molto diverso da quello borghese, a denunciare la loro presenza alzando la “bandiera rossa”, simbolo del comunismo tutore delle classi più deboli, e deponendo in essa tutte le speranze di un riscatto sociale per una vita diversa e migliore.

Da “ Il pianto della scavatrice” a gli “Scritti corsari”, per cercar di capire qualcosa in più in merito: una riflessione pasoliniana sul “pessimismo” nei confronti del mondo, della vita e del futuro in genere ( un “passo” tratto da uno dei suoi “articoli corsari”: “Analisi di uno slogan”del 17 Maggio 1973):

“….La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte. Ma è possibile immaginare un mondo così negativo? È possibile prevedere un futuro come <>? Qualcuno – come me – tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa un’esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificabile ma ingiusta.”

A PROPOSITO DI “IMPETO GOBETTIANO” ( breve nota su Gobetti e sulla sua “Teoria” )

Piero Gobetti rappresenta una figura molto importante per l’Italia dei primi anni del XX secolo e soprattutto per l’ambiente politico-sociale ed intellettuale della sua città: Torino. Fu un grande “Organizzatore di cultura” dedito ad un’azione tanto pedagogica, quanto politica, fuori da ogni preconcetto e schematismo e vicina al “socialismo” di Salvemini. Amava moltissimo la letteratura e il teatro e già da giovanissimo iniziò la sua attività e la sua esperienza c.d. delle “Riviste” dando vita prima al quindicinale “Energie nove” e collaborando in seguito, prima con “Ordine nuovo” e poi con “La Rivoluzione liberale”. Mediante quest’ultima il Nostro proponeva la formazione di una classe politica capace di avere una coscienza molto chiara delle proprie tradizioni storiche e di conoscere e interpretare le esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato. Visse pertanto la politica con grandissimo impegno morale e con rigore intellettuale, come una “vera missione” finalizzata a salvare un’eredità culturale di altissimo spessore e ad affermare le tradizioni dei valori illuministici, considerati autentici e duraturi. Il Nostro rappresenta inoltre il padre-simbolo della famosa teoria della “Rivoluzione liberale”, che vorrebbe veder guidare la rivoluzione del proletariato dalla borghesia liberale e da intellettuali capaci di trovare nel popolo un interlocutore privilegiato, cercando di costruire insieme una “coscienza unitaria” ed approdando così alla prima e vera “rivoluzione laica”.

DA PASOLINI AD ANTONIO GRAMSCI: approfondimenti e riflessioni.
Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891, si iscrive nel 1911, grazie ad una borsa di studio, alla facoltà di lettere e filosofia dell’università di Torino senza poi terminare gli studi per una completa dedizione alla vita politica e poiché impegnato in prima persona, con un’accanita militanza, nelle file del movimento socialista. Padre – Fondatore di “Ordine nuovo” che diventa un grande punto di riferimento dell’ala più rivoluzionaria della classe operaia dell’epoca. In seguito ad una scissione dal partito socialista, fonda il nuovo Partito comunista d’Italia e tra il 1922/1923 trascorre un anno in Unione Sovietica dove conosce Lenin. Nel 1924 viene eletto deputato e fonda “L’unità” che diventa un “organo” molto importante per il P.C.I. . viene poi arrestato dalla polizia fascista nel 1926 indicato come “il cervello del comunismo italiano” e condannato, pertanto, a venti anni di carcere perché considerato scomodo e pericoloso per le sorti della politica fascista. Per una riduzione della pena viene scarcerato nel 1937 ma muore subito in una clinica romana all’età di quarantasei anni per gravissimi motivi di salute. Oltre i famosi “Quaderni del carcere” svariate sono le sue opere pubblicate nel dopoguerra : “Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce”, “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”, “Letteratura e vita nazionale” ecc….

Le “linee direttive” di fondo su cui si basano la riflessione e il pensiero filosofico di Gramsci sono due: la prima è costituita da un “ripensamento teorico del marxismo” e pronta a “contrastare gli altri indirizzi speculativi” e di imporsi tra gli intellettuali; la seconda, invece, risulta costituita da un’analisi circa “i modi e le forme in cui può avvenire la conquista del potere in Italia”. Gramsci viene considerato soprattutto per questo uno dei rappresentanti più interessanti e significativi del “marxismo teorico del Novecento” e forse il maggior “stratega della via italiana al socialismo”.

Il Nostro vive in un periodo culturale segnato dal “neoidelismo” e influenzato fortemente dalla filosofia di Benedetto Croce, figura prevalente fra gli intellettuali laici e liberali dell’epoca e contro cui è diretto il suo grande “sforzo critico – culturale”. A discapito del famoso “idealismo crociano” Gramsci fa valere il principio del cosiddetto “umanesimo assoluto” e del più rigoroso “immanentismo storicistico”. Infatti, pur riconoscendo a Croce il merito di aver insistito sulla “storicità del reale” e di aver combattuto contro la “metafisica” e la religione, Gramsci gli rimprovera e gli rinfaccia di essere ancora “speculativo” e 1) “di non aver condotto sino in fondo la lotta contro la teologia e la trascendenza, in quanto il suo spirito non è che la modernizzazione della vecchia figura di Dio e di essere tutta la trascendenza e la teologia appena liberate dalla grossolana scorza mitologica” 2) di “aver isolato il momento sovrastrutturale della storia etico-politico-culturale dalla sua concreta concreta base economica di classe”. Praticamente, per Gramsci, “la storia del Croce è una storia teologica ed il suo immanentismo è un falso immanentismo, il suo storicismo non è un reale storicismo, proprio perché quella storia che egli ci presenta come reale, in effetti non è la storia della realtà, ma la storia di un suo momento solo: il momento culturale, ideale, che da solo non ci dà il divenire storico nella sua totalià.”

Invece il concetto tramite il cui Gramsci esprime e cerca di riassumere il suo “umanesimo assoluto” è quello di “praxis” e quindi “prassi”. Il Nostro intende con essa la “globalità” dell’azione umana nel mondo e quindi l’impegno nella trasformazione rivoluzionaria della realtà. (in effetti il marxismo è l’unica vera filosofia della “praxis”). Da qui il concetto più importante della filosofia gramsciana che dimostra come la supremazia globale di un gruppo non si manifesti solo attraverso il dominio e la forza , ma mediante la capacità di direzione ideale nei confronti delle classi alleate. Pertanto, se il dominio è fatto valere attraverso gli “apparati coercitivi” della società politica, la direzione intellettuale è fatta a sua volta valere attraverso gli “apparati egemonici” della società civile: la scuola, la Chiesa, i partiti, la stampa, i sindacati, il cinema ecc…

In altri termini l’egemonia, intesa come capacità di direzione intellettuale e morale, si configura non solo come “esercizio del potere” ma anche come l’obiettivo principale di una classe in ascesa. È proprio in questo caso che il “gruppo rivoluzionario” deve sforzarsi di diventare dirigente già prima di aver conquistato il potere governativo e diventare dominante. Tutto questo risultava possibile per Gramsci perché la borghesia dell’epoca, pur se dominante, avevo perso quella famosa “capacità di capire e di interpretare le esigenze del popolo e risolvere i veri problemi della collettività. Quest’ultimo punto, su cui insiste moltissimo Gramsci, tende però a formare un “blocco storico” di forze differenti tenute insieme dalla nuova visione del mondo elaborata da un soggetto rivoluzionario. Questa dottrina, che valorizza fondamentalmente il “momento ideale dell’egemonia di classe”, attribuisce notevole importanza agli intellettuali che sono visti non come “un gruppo sociale autonomo e ristretto” ma come “l’insieme dei quadri dirigenti che elaborano e trasmettono delle idee-guida” nei vari settori dell’educazione, della politica, della filosofia e della cultura in genere e, attualizzando il concetto, direi quasi come un “osservatorio” capace di essere un vero punto di riferimento per tutto. Quindi, se ogni classe tende a produrre i suoi cosiddetti “intellettuali organici”, in relazione ai propri bisogni ed alla propria “mentalità”, si formerebbero dei veri intellettuali “persuasori” o “commessi” della classe dominante indirizzati a mediare il consenso in funzione conservatrice da una parte e tesi ad elaborare e diffondere presso le masse la nuova visione rivoluzionaria del mondo dall’ altra e cioè quella legata al partito comunista. Secondo la dottrina gramsciana, andando in questo verso, “l’intellettuale organico” vero finirebbe per essere il Partito Comunista stesso in tutte le sue capacità di rappresentare nella sua totalità, gli interessi e le aspirazioni della classe lavoratrice, e di configurarsi come unica loro guida politica morale e ideale

( per questo il Partito comunista era per i suoi appartenenti una fede, una religione, una vera scuola )

Così, per le sue strategie e capacità unificatrici, Gramsci denomina il P.C.I. il “moderno Principe” che a differenza di Machiavelli, coincide non in un individuo concreto ma in un organismo in cui si concretizza la volontà collettiva di tutta la classe dominante. In modo coerente alla sua “dottrina dell’egemonia” Gramsci sintetizza, in seguito, la sua proposta strategica affermando che in Occidente lo scontro rivoluzionario non è mai frontale e limitato alla “trincea”, cioè alla “facciata dello Stato”, poiché deve piuttosto dirigersi meglio in profondità, attraverso una “snervante guerra di posizione” contro l’insieme delle istituzioni della società civile come la scuola, la stampa, il cinema ecc… , che lui definisce “fortezze e casematte del nemico”. In altri termini, lo scopo del partito comunista deve essere quello di “logorare progressivamente la supremazia di classe della borghesia, conquistando i punti strategici della società civile e ponendo le inevitabili premesse per la propria candidatura al potere” . Si noti bene come questa “strategia gramsciana” sia stata fatta “pane quotidiano” dal P.C.I. nella famosa “via italiana al socialismo”, segnata prima dalla svolta di Togliatti e poi portata avanti da Berlinguer , tenendo sempre presente l’idea di una conquista dello Stato borghese dall’interno della società civile e cercando di costruire la propria egemonia mediante una “peculiare battaglia delle idee” con una grande ed interessante proposta di “riforma intellettuale e morale” in grado di ottenere il consenso delle masse circa una vera prospettiva socialista.

GRAMSCI E LA QUESTIONE MERIDIONALE
Molto importante, in Gramsci, risulta l’ulteriore semplificazione dei concetti di egemonia e di blocco storico riguardo un tema scottante come quello della “questione meridionale”. È lui stesso a sostenere che: “Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti, nella misura in cui riesce ad ottenere il consenso delle masse contadine.”

Ma in Italia, al tempo del Nostro, la questione contadina era connessa da un lato con la “questione vaticana” ( e cioè dall’influenza della Chiesa sulle stesse masse ) e dall’altro dalla questione meridionale. Gramsci in questo caso sostenne che la classe operaia italiana potesse conquistare il dominio e il potere facendo diventare la “questione meridionale” una “questione nazionale”. Ciò era dovuto, secondo al Nostro, alla situazione socio-politica della penisola basata su un grande blocco formato da i capitalisti del Nord e proprietari terrieri del sud. Quest’ alleanza era la conseguenza della maniera stessa in cui era stata condotta l’unificazione italiana, diretta ed egemonizzata dai moderati del tempo e non dal Partito d’azione, d’impronta mazziniana e garibaldina e che non era stato capace di legarsi alle masse rurali e contadine e portare avanti la questione agraria. Pertanto, se si voleva battere il blocco dei poteri industriale-agrario, bisognava, secondo la teoria gramsciana, superare la divisione fra la classe operaia del Nord e quella contadina del Sud. Ma il problema di saldatura politica sociale e culturale fra quest’ultimi implicava lo sforzo di strappare le masse rurali dall’egemonia esercitata dalla Chiesa e dalla borghesia, ponendo in primo piano la “questione degli intellettuali”, ossia di quel ceto che aveva sempre rappresentato il collante o meglio ancora la “cerniera” di unione fra il grande proprietario e il contadino. La società meridionale del tempo era costituita da tre strati sociali: 1) la grande massa contadina amorfa e disgregata ; 2) gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale; 3) i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali.

Così: il fermento delle masse contadine, non capaci di dare un’espressione centralizzata alle loro aspirazioni, stimolano lo strato medio degli intellettuali alla loro attività politica ed ideologica e i grandi proprietari nel campo politico ed i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano in ultima analisi , in modo efficace e sicuro, il volere delle manifestazioni delle masse.

Si crea in tutto ciò un “circuito perfettamente utopico” dove la “centralizzazione dei problemi” si verifica in modo efficace e sicuro nel campo ideologico e grazie alle concatenate dipendenze tra i diversi strati sociali.

PASOLINI E LA POLITICA: UNO SGUARDO SU UNO DEI SUOI FAMOSI INTERVENTI – COMPONIMENTI CHE SURRISCALDARONO GLI AMBIENTI DELLLE “GIOVANI LEVE RIVOLUZIONARIE” DEL MITICO 1968.

da “Empirismo eretico” (1972): studi, approfondimenti e riflessioni

“Empirismo eretico” è una raccolta di saggi e testi carichi di una grandissima “polemica pasoliniana” contro la società del suo tempo, vittima e succube del “mostro-consumismo” e profondamente segnata dal conformismo sociale e culturale e soprattutto dalla corruzione politica, dall’indifferenza e dal totale disinteresse della classe politica per le vere problematiche del popolo e della gente umile. È proprio in quest’opera che “trova posto” un componimento in versi del 1968 che suscitò, illo-tempore, moltissime discussioni e polemiche surriscaldando l’ambiente che ruotava intorno le proteste e le manifestazioni studentesche di quel famoso “periodo storico”.

È uno “sfogo” pasoliniano autentico, polemico e soprattutto provocatorio nei confronti di tutti quegli studenti contestatori ricchi e viziati che, secondo il Nostro, si “permisero”, senza “alcun diritto” o meglio senza alcuna “legittima autorità”, di attaccare dei giovani poliziotti, durante una manifestazione di piazza, che rappresentavano per lui, in quella situazione, i “veri umili”, i veri “figli dei poveri”. Erano i poliziotti, infelici scherniti e maltrattati e non viziati ed arroganti come i “figli di papà” che si “scaldavano” tanto tra il movimento studentesco, a rappresentare la vera parte lesa e quindi stare dalla parte del “giusto”. Dopo una lettura personale attenta e scrupolosa del componimento, mi interrogo su alcune cose interessanti e cerco di darmi delle spiegazioni valide ed esaustive alla comprensione del “come” e “perché” di questo “scottante componimento”. Ritornando ad una delle tematiche più importanti delle opere di Pasolini, vediamo come, anche in questo suo intervento, il Nostro mostri, come sempre ha dimostrato e confermato, nelle poesie come nei film, di star dalla parte del popolo delle campagne e dalla parte del popolo che sovraffolla le periferie urbane e le borgate. Partendo solo da questo presupposto, possiamo capire il punto di vista di Pasolini che “denuncia” la rivolta di questi studenti-figli di papà semplicemente come una “guerra tra borghesi” o meglio tra “ragazzi borghesi” ed i loro “genitori borghesi”. Una rivolta condotta senza nessuna consapevolezza storica, innocua, che gode della simpatia dei media perché a loro volta borghesi e non della simpatia di Pisolini. Questi sostiene infatti, che la “vera rivoluzione” non si può fare senza classe operaia, senza i “veri sfruttati” (concezione marxista). La rivolta studentesca era considerata esclusivamente una “messa in scena” per ricavare spettacolo e pubblicità e far del male a gente umile, i poliziotti in questo caso, ed ai figli di povera gente provenienti dalle campagne e dalle periferie urbane che ha conosciuto veramente la fame, la miseria e l’emarginazione. Il vero dilemma pasoliniano non è comunque limitato a ciò perché il concetto polemico di questo “scottante componimento” va oltre. Infatti, la vera paura dell’autore era rappresentata dal “pericolo” che il proletariato e il sottoproletariato si lasciassero conquistare dal facile modello di vita imposto dal neocapitalismo che stava segnando gradualmente la fine dell’ideologia marxista e quindi la delusione e la consapevolezza che gli impediva di vedere nel ’68 un’alternativa al consumismo e al materialismo che stava incominciando a tormentare la società del suo tempo.

In questo contesto penso si possa collocare la “Ballata delle madri” attraverso la quale, in alcuni suoi versi, letti personalmente, il Nostro tratteggia la figura delle “madri della piccola borghesia” contro le quali si scaglia il suo “feroce odio personale” .Madri, queste, molto diverse dalle “madri del popolo indurite o rese fragili dalle difficoltà della vita”. Questa ballata “denuncia” gli aspetti negativi mentalità piccolo borghese ed è una “Ballata” dal tono sferzante con una visione amara e veritiera del contesto-storico sociale dell’epoca, capace di accreditare le tesi sopra discusse e di aver creato in me una fortissima impressione ed un’ulteriore comprensione del pensiero di Pasolini.

“Madri vili, poverine, preoccupate

che i figli conoscano la viltà

per chiedere un posto, per essere pratici,

per non offendere anime privilegiate,

per difendersi da ogni pietà. […]

Madri feroci, intente a difendere

quel poco che, borghesi, possiedono,

la normalità e lo stipendio […]

Madri feroci, che vi hanno detto:

sopravvivete!Pensate a voi!”

IL GRANDE CINEMA DI PASOLINI: approfondimenti dei seminari

Pasolini afferma che il “cinema altro non è che la lingua scritta dalla realtà ( che si manifesta sempre in azioni ) e non è né arbitrario né simbolico: rappresenta la realtà attraverso la realtà. In concreto, attraverso gli oggetti della realtà che una macchina da presa, momento per momento, riproduce.” Anche nel caso del cinema il suo attaccamento ed amore per il “lavoro” che svolgeva con le sue mani con una macchina da presa ve ricondotto alla sua “costante istanza realistica” ed al suo “allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà”. Il suo cinema gli consente, più qualsiasi altra cosa e soprattutto in un periodo particolare della sua vita professionale, di soddisfare “la voglia di vivere fisicamente sempre al livello della realtà, senza l’interruzione magico-simbolica del sistema di segni linguistico”. Questa particolarità e questo rapporto con il linguaggio cinematografico determina il suo modo di fare i film e quindi il suo cinema. Particolare attenzione dobbiamo porre nella sua preferenza data alla naturale carica espressiva del volto degli attori piuttosto che alla loro recitazione. All’attore che sa recitare preferisce invece l’attore che pur essendo meno bravo ha però un viso molto espressivo. A volte preferisce addirittura il non-attore: per esempio la madre, la figura della Madonna ne “Il Vangelo secondo Matteo” , oppure qualche suo amico come la famosa cantante lirica Maria Callas o come lo scrittore Francesco Legnetti. Si racconta addirittura che, prima di scegliere lo studente spagnolo, Pasolini aveva pensato di contattare Adriano Cementano per assegnare la parte importante di Gesù Cristo nel film “Il Vangelo secondo Matteo”. Il cinema di Pasolini si lascia guidare dal suo stesso gusto pittorico e da quel suo strano “manierismo” che lo aveva plasmato durante gli anni universitari sotto l’illustre giuda di Roberto Longhi. Pasolini stesso spiega che: “Il suo gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più assieme a certi manieristi come il Pontormo . E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obbiettivo si muovesse su loro sopra un quadro”.

“ACCATTONE”

Il primo film di Pasolini, “Accattone” del 1961, è ambientato nel mondo delle borgate romane, già familiare alla sua narrativa e poesia (“Ragazzi di vita” , “Una vita violenta”, “Le ceneri di Gramsci”) ed il suo protagonista, Accattone, rappresenta la figura simbolica di un’intera classe sociale , quella del sottoproletariato delle periferie urbane, che è segnata da un destino crudele poiché legato alla sua fine. Questo è anche n motivo di sfida di Pasolini che calca la mano su un mondo di delinquenti, magnacci, prostitute, di persone senza nessun valore ufficiale. Accattone è una figura di martire molto vicina a quella di Gesù. Il film rappresenta un martirio ed una sacre rappresentazione dovuta anche alla tecnica pasoliniana delle inquadrature fisse e frontali delle telecamere. È comunque un film senza trama ma esiste un crescente narrativo con una frequente scansione di un ritmo che ripropone continuamente l’immagine della morte. Il destino ed il senso della morte è, infatti, il tema dominante di questo film e ciò lo possiamo notare da tantissime scene, prese in esame direttamente dalla sceneggiatura, come quella iniziale del tuffo di Accattone nell’acqua del fiume; come la scena n°22 dove le campane suonano a morte ed Accattone incontra il balilla che gli dice che il camposanto era dal lato opposto della strada che lui invece stava percorrendo; la scena dove Accattone per aspettare la “sua” Stella si siede su una tomba della via Appia e dice al morto sepolto che si chiamava Palombi: “Ah Palombi tirate un po’ più in là che mi seppellisco anch’io!” e continua poi “A stò mondo non si campa più……..e io non ci stò!”( c’è in Accattone l’ultima ribellione disperata contro la morte e il suo destino); ma nella scena n°67 Accattone, dopo aver tentato la “carta del lavoro”, che non faceva per lui, perché ognuno deve fare il suo mestiere (Accattone era nato ladro e il suo destino era rimasto quello) accetta la sua fine e stanco e distrutto,irriconoscibile e disfatto( Accattone è un “ECCE HOMO” affiancata alla figura di CRISTO) dalle fatiche del lavoro sogna il suo funerale.

Accattone è ormai consapevole della sua fine, aveva venduto tutti i suoi beni ed aveva perso tutto quello che aveva e si era ridotto proprio come un accattone (c’è in questo il segno predestinato della sua morte), e tutto ciò trova il culmine nella scena finale, con la tragedia della morte del protagonista, che muore dopo un incidente con una motocicletta in mezzo alla strada e prima di spirare dice: “Ora sì che sto bene!”.

“MAMMA ROMA”

Il secondo film di Pasolini è “Mamma Roma “ del 1962 e bisogna leggerlo, a differenza del primo, sotto una chiave particolare segnata, attraverso le descrizioni piccolo-borgesi, dalla voglia di riscatto sociale e quindi del salto di classe della sua protagonista Mamma Roma che spera e sogna un futuro migliore, da piccolo-borghese e non da proletario, per il proprio figlio Ettore. Però, aldilà della brutta fine di Ettore, che muore in carcere giovanissimo dopo aver tentato di accontentare e realizzare senza alcun esito positivo le aspirazioni della madre riposte nei suoi confronti, il film è caratterizzato da una presa di coscienza del proprio destino ingrato da generazioni e che non offre nessuna via di scampo o di uscita e quindi di possibile riscatto sociale. Questo è il leit-motiv di tutto il film e particolari e significative sono le scene che lo caratterizzano: prima Mamma Roma, dopo essere ritornata a “battere” sulla strada dopo diversi anni, rinuncia di farsi degli esami di coscienza e dice a Biancofiore: “Fatteli da sola questi esami di coscienza” , ma, in seguito, attraverso le sue famose passeggiate, costruisce gradualmente la sua maledetta storia ed arriva ad una conclusione disperata capendo le sorti del suo destino e perdendo ogni speranza senza nessuna colpa o responsabilità. Esempi pratici sono le battute : “Dio liberaci dal male”; “Dio spiegamelo te”.

Particolare attenzione, in questo film, dobbiamo porre in tutti quei richiami a citazioni bibliche ed ai momenti e riferimenti a temi religiosi: la stessa frase “Dio liberaci dal male” oppure la prima scena del matrimonio con il banchetto disposto a ferro di cavallo come “l’ultima cena” e i “papponi2 disposti come gli apostoli.

“IL VANGELO SECONDO MATTEO”

Questo film, il terzo film di Pasolini , è del 1964 ed è dominato da un Cristo non tradizionale e polemico in linea con le istanze di rinnovamento portate avanti da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II. L’obiettivo di questo film è cercare di restituire la forza trasgressiva del messaggio di Cristo ed in chiave pasoliniana tutto ciò assume un aspetto di classe e c’è, nei discorsi di Cristo stesso, un segno maggiore di ribellione e protesta. Le scene sono ambientate stranamente nell’Italia meridionale e questo dà al film una valenza politica. Pasolini, allora etichettato “comunista” e molto vicino al P.C.I., anche se i suoi film offendevano sia le idee marxiste ortodosse sia la Chiesa, si fa affiancare, nella sceneggiatura di questo suo capolavoro, da un frate francescano, un certo Carraro, per avere garanzie sulla fedeltà delle sue scene. Le inquadrature deformanti con stampo impressionistico servono per ridare il vecchio e vero valore alla storia, e una vera dimensione sacra capace di sottrarsi alla sua stessa dissacrazione. Soprattutto le parti finali del film sono molto diverse dalla tradizione religiosa (es: non c’è il bacio di Giuda, il gallo non canta tre volte prima che Pietro tradisca Gesù, “nell’ultima cena” ci sono solo degli aspetti marginali rispetto alla tradizione ) e le scene assumono dei connotati di vita quotidiana che rendono meglio la sacralità “della storia” in sé.

Pasolini continua la sua produzione cinematografica con la nascita di tantissimi altri film e negli ultimi anni sessanta la sua regia si indirizza verso una dimensione mitica e simbolica e sostenuta da una dura polemica contro il mondo borghese: questa è particolarmente feroce in “Teorema” (1968) e “Porcile”(1969). In “Edipo re”(1967) e “Medea” (1970) assistiamo sostanzialmente alla proiezione nell’antica Grecia del “mito” prima incarnato dal sottoproletariato romano. Un’analoga proiezione, ma nel mondo medievale, esiste anche nella cosiddetta, dall’autore stesso, “Trilogia della vita” che esalta il vitalismo e l’antica tolleranza sessuale, sostituita invece nella attuale società da una finta libertà di matrice consumistica. La “Trilogia della vita” comprende: “Il Decameron” (1971), “I racconti di Canterbury” (19729, “Il fiore delle Mille e una notte” (1974). Il culmine della produzione cinematografica pasoliniana, e soprattutto del suo pessimismo cupo e disperato, è segnato dalla nascita del suo ultimo film: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. In quest’ultimo suo film è raccolta tutta la consapevolezza, sempre più forte, della irreversibile assunzione dell’odiato modello di vita piccolo-borghese da parte di tutto il sottoproletariato e tutto ciò lo induce ad un pessimismo cupo ed assoluto tragicamente segnato dove “la vita non era nient’altro che un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”.

“SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA”: uno sguardo sull’ultimo periodo intellettuale di Pisolini, tra scritti corsari e polemici e “rassegnazioni” dettate da un pessimismo apocalittico.

Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film sottostimato ed irritante attraverso il quale Pasolini cerca di spiegare definitivamente come non esista più nessuna possibilità capace di contrastare il “potere” dominante ed omologatrice del suo tempo. Il mondo di “Accattone” non esiste più ed il carattere è più apocalittico dove le democrazie contemporanee sono tutte neofasciste con una grande “capacità” di esercitare un potere più forte e coercitivo, perché più totalitario, sulla gente rispetto al fascismo storico. Pasolini dimostra ciò con “Salò” in un modo “manieristico” e prendendo spunto da Sade cerca di spiegare come il rapporto sessuale è un rapporto di potere tra “carnefice” e “vittima”.ambienta, infatti, il film in epoca fascista , durante la repubblica di Salò: i fascisti rappresentano i “carnefici” e i loro sudditi rappresentano le “vittime”, costretti di sopportare i loro soprusi. Il potere neocapitalistico e la liberalizzazione sessuale hanno portato ad una visione e concezione del rapporto sessuale in una chiave del tutto particolare, che il Nostro denuncia anche in alcuni sui “articoli corsari”, dove il rapporto appunto tra “carnefice” e “vittima” assume un aspetto cosiddetto “usa e getta” senza alcun principio o criterio morale.

Questo film, nonostante tutto, è il film più perfetto della produzione cinematografica di Pasolini. Lui stesso dichiara di voler fare un film tecnicamente perfetto anche se era un film insopportabile che indignava il pubblico. Pasolini però, nasce scrittore e agli inizi della sua carriera da regista gli hanno dovuto spiegare tutto. Infatti, i suoi primi film sono pieni di errori con scene imperfette, che non sono state mai riprodotte, causate soprattutto da una presenza insufficiente di pellicola (es:caduta in massa degli attori durante la processione del Calvario nel film “Il Vangelo secondo Matteo”). Il Nostro attinge le sue conoscenza da “fonti” illustri come Bazin, grande teorico del cinema degli anni ’60, che definiva il cinema il prodotto finale della raffigurazione realistica della realtà. Ciò si può attuare attraverso l’uso tecnico del “piano sequenza”. (c’è sequenza fin quando non c’è stacco e quindi pausa). Un film viene considerato tecnicamente perfetto in quanto c’è un unico piano sequenza e praticamente non stacca mai. Ma nel caso di Pasolini, il “piano sequenza” risulta una registrazione neutra e non è utilizzata perché non è intento dell’autore “riprodurre fedelmente la realtà”. La cosa più importante nel film è il montaggio dei vari piani sequenza. È il regista che decide, con il suo libero arbitrio critico, come montare e interpretare la realtà leggendola a modo suo in base alle sue scelte. La realtà va pertanto interpretata e montata con le scene attraverso un montaggio tecnicamente perfetto. Il cinema, in questo caso, è l’arte e lo strumento capace di offerti un modo migliore per interpretare il suo “oggetto trattato” e non la sua “migliore resa”. “Salò” è un film molto diverso da tutti gli altri, è soprattutto un “film a tesi”, perché è anche diverso il suo pubblico ed interlocutore più colto che riesca a capire anche le sue esplicite citazioni.

È un pubblico educato sulla grande cultura occidentale, mediamente colto e quindi borghese. È un pubblico “alla pari” della cultura di Pasolini stesso. Solo un pubblico così può capire le sue “citazioni manieristiche e della Bibbia” e quelle implicite ed esplicite fatte su Sade, Nietzsche, Roland Baethes ( in questo film biblioteca il Nostro cita l’intero citabile). Chi può capire tutte queste citazioni? Soltanto un pubblico che ha letto ciò, che conosce determinate cose, che capisce ciò che dice Pisolini e che l’intera umanistica tarda novecentesca (questa è anche una “tesi” del film) abbia favorito il “male” del Fascismo e di tutte le sue barbarie. “Salò” pertanto ha anche una valenza politica e costringe ad una riflessione dove le due famose fasce “carnefici” e “vittime” sono ora raffigurate da una parte con i crimini della classe fascista e da tutti i borghesi e dall’altra le vittime dei loro soprusi ed il tutto porta ad una “alterità sopraffatta”. “Salò” è ancora un film provocatore ed aggressivo che “butta nella faccia” le responsabilità del pubblico e dimostra che anche la più banale delle “ribellioni”, ad esempio il saluto comunista di un ragazzo durante una scena del film, è inutile poiché frutto di una ribellione dettata sì da una aspirazione di una situazione migliore di vita, ma innanzi tutto segnata profondamente da una vera presa di coscienza della triste e disperata situazione in cui vivevano i personaggi. Sono dei semplici rilanci istintivi privi di una “reale convinzione” capace di ribellarsi al potere (anche per questo il film è bello e apocalittico). Le sue vittime e i suoi carnefici sono tutti consumatori ( c’è una scena dove vengono mangiati dei biscotti Wafer) complici del sistema e le sue vittime non possono né contrastarlo e né tantomeno sono coscienti di essere “vittime”. “Salò” è considerato un “Porno Teo kolossal” dove in modo assurdo il Nostro tenta di dare una sacralità alla vita umana ma nella terribile situazione in cui ci si trovava non poteva esistere, come in “Accattone”, una “vera sacralità” perché tutto era molto diverso ed ormai “profondamente segnato” da un omologazione e massificazione della realtà sociale. Tutto è morto, la tradizione non esiste più, il potere rende inutile qualsiasi discussione sull’arte, sulla cultura, viene meno tutto. Rimane solo la distruzione radicale di tutto senza nessuna possibilità di uscita o di soluzione. È ormai morta la “cultura bassa” grazie anche ai mass-media ed alla Tv, tema dominante di alcuni suoi interessanti articoli polemici e corsari, dove tutti, coinvolti dalle facili strade del neocapitalismo, erano diventati vittime del mostro progresso e del suo consumismo sfrenato e del suo conformismo irrefrenabile. Esiste ore una cultura unica che coincide con la cultura del potere dove anche gli intellettuali si trovano coinvolti. È, secondo Pasolini, la fine di tutto!

“UCCELLACI ED UCCELINI” (1966)

In questo film, che Pasolini stesso dichiara “disarmato e fragile” con nessuna somiglianza né ai suoi film precedenti né ad alcun altro film, i due protagonisti, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, vanno alla continua ricerca del loro “riscatto sociale” e durante il loro fantastico viaggio, che non ha né un inizio e né una fine ( es: cartelli stradali che indicano che Istanbul è a oltre quattromila chilometri e che Cuba è a più di tredici ), incontrano un corvo che è la controfigura del poeta stesso e che rappresenta l’Ideolgia, e più precisamente l’ideologia di sinistra che entra in crisi, e che muore divorato dagli stessi protagonisti. Dall’incontro del Corvo scaturisce una domanda precisa, che caratterizzava le situazioni e i problemi dell’epoca, “dove va il mondo?” alla quale neanche lui saprebbe rispondere. È tuttavia, fedele alla propria funzione cercando di “instillare” nelle menti innocenti dei due protagonisti qualche concetto non effimero rispetto alle loro “chimere” sociali. È proprio da questo che poi nasce “l’apologo francescano del Milleduecento”: il frate giovane e il frate anziano (Ninetto il primo e Totò il secondo) sono mandati da San Francesco in persona a “evangelizzare” gli uccelli e riescono, dopo lunghe attese di mesi e stagioni con freddo neve pioggia e vento, a comunicare, con il loro stesso linguaggio, il “Verbo” sia ai falchi sia ai passeri. Però quando in seguito un falco e un passero s’incontrano, il primo piomba sul secondo e lo sbrana. Perché? L’evangelizzazione non era riuscita ad eliminare la “lotta di classe”. Non basta, infatti, parlare d’amore e di fratellanza, se “uccellaci” ed “uccellini” non sono resi uguali di fronte a Dio o meglio ancora di fronte alla storia. Così San Francesco invita i due protagonisti a ricominciare la loro importante opera di “evangelizzazione” e dopo essere ritornati uomini normali, svestiti pertanto dai panni di frati, si comportano con gli altri o come falchi o come passeri: sono, infatti, o sfruttatoti o sfruttati ( es: in una scena Totò infierisce sulla contadina che non può pagare l’affitto, mentre striscia davanti al padrone e ai suoi cortigiani “esasperatamente intellettuali”; la scena in cui una donna partorisce davanti a tutti in un gruppo di “guitti”; la scena, lungo la strada, e nel campo coltivato, quando entrambi si isolano con una prostituta). Nel frattempo il Corvo continua a parlare e parlare, svolgendo del resto il suo importante compito, ma in cuor suo si sente morire ed è consapevole della sua fine, della crisi dell’ideologia di sinistra che rappresenta, della morte che lo spetta con la sua uccisione e con i due protagonisti che lo afferrano e lo cucinano sulla brace. Attraverso questa scena “ideo – comica” Pasolini dichiara apertamente la fine dell’idea marxista-cristiana e la caduta delle sue illusioni e delle speranze di una generazione intera. La crisi e la fine definitiva del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta e Sessanta è “poeticamente” situata all’interno della morte di Togliatti, ed alla quale , nello stesso tempo, Pasolini non è disposto a credere. Infatti, il Corvo dice in una scena: “Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! È su me stesso che piango….”. In questo film il Nostro sostiene che anche l’ideologia più avanzata, come quella marxista, non ha saputo incidere sulla realtà sociale e spirituale del tempo.

IL ROMANZO DELLE STRAGI ( da “Scritti corsari” )

Uno sguardo alla storia tenendo presente il pensiero di Pasolini:

In nessun paese democratico europeo il “terrorismo” ha avuto le stesse dimensioni assunte in Italia. Le ragioni devono essere cercate nella crisi economica e politica seguita al boom degli anni Cinquanta, nella degenerazione del movimento studentesco, nella restrizione degli spazi di azione politica entro i partiti di opposizione, nel fatto che un partito politico, la Democrazia Cristiana, sia stato al potere per tantissimi anni di seguito. I terrorismi che esplosero in Italia dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta sono due: quello “rosso” e quello “nero”. Le origini del primo si identificano con la nascita delle “Brigate Rosse” e le sue terribili azioni terroristiche iniziarono nel 1968, sulla scia del movimento studentesco, con attentati incendiari, sabotaggi, sequestri di persone come giornalisti, magistrati, dirigenti politici e poliziotti. Tutto questo al fine di sensibilizzare, in modo del tutto errato, le avanguardie operaie, cercando di ottenere il loro consenso ed il loro appoggio politico in vista di un’azione rivoluzionaria a largo raggio contro lo Stato “borghese”. Questo obiettivo però fallisce perché la classe operaia del tempo rifiuta la violenza delle loro manifestazioni e si schiera dalla parte del PCI.

Però, già prima dell’esplosione del terrorismo “rosso”, aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo “nero”, ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. I terroristi “neri” si proponevano, attraverso attentati “dinamitardi ed indiscriminati”, diretti pertanto a colpire la popolazione e spargere il panico con il sangue, cercando di indebolire le resistenze e di imporre un forte governo di destra. Essi poterono contare su connivenze all’interno degli stessi organi dello stato, collegati presumibilmente coi servizi segreti di paesi anticomunisti europee e americani. Le “imprese” più rilevanti e spietate del terrorismo “nero” sono: la strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 con 17 morti e 88 feriti, quella di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 con 8 morti e 94 feriti, quella del treno Italicus del 4 agosto 1974 con 12 morti e 105 feriti, quella della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 delle ore 10:25 con 85 morti e 200 feriti ( tra il 1969 e il 1982 le vittime del terrorismo italiano erano state complessivamente 350, delle quali 164 del primo e 186 del secondo) .

Si era creata in quel periodo una confusione generale che aveva destato grande paura non solo nel mondo politico, giudiziario, culturale ed intellettuale, ma soprattutto tra le gente comune che rischiava quotidianamente di saltare in aria trovandosi anche nel posto meno immaginabile per un attentato. Si respirava un’aria di terrore irrespirabile e i famosi “Anni di piombo” distrussero gli assetti politici e sociali di tutta l’intera nazione. All’interno di questa incredibile situazione la posizione di Pasolini, per quel che riguarda gli attentati “neri” accaduti fino alla sua morte, è chiara e alquanto pericolosa, forse anche per questo si pensa alla sua morte come ad un “delitto politico”, ma spinta dalla sua autenticità e dal valore dei suoi principi di intellettuale. Lui stesso dice in modo molto chiaro, delineando la situazione che si era venuta a creare, nelle pagine del suo coraggioso articolo, di sapere ma di non avere le prove : “Io so. Io so i nomi. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un interno coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio <> sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che io so in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile”.

Pisolini non ci dà nemmeno una prova, né una testimonianza, perché il suo ruolo, cioè quello dell’artista e dell’intellettuale, è solo quello di dipingere la “pietà” ed intervenire, attraverso l’importante posto occupato dalla letteratura, sul reale senza passare da nessun altro stadio come la fede le prove e le testimonianze. La letteratura deve esser in grado di dare un “annuncio” ed è per questo che si incontra con il tema “conoscenza”, che è a sua volta, inseparabile dalla letteratura stessa. L’arte è uno strumento della conoscenza e non è suo compito nel caso delle stragi dichiarare i nomi dei colpevoli perché non ha né prove né indizi: “Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare i nomi? Evidentemente a chi solo non ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né le prove né gli indizi.” E poi vediamo pure il perché: “Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere , ha eluso gli intellettuali liberi _ proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.” In questo senso, riprendendo un altro tema scottante della sua polemica corsara, Pasolini attua una condanna totale su tutti e su tutto perché pensa che la rivoluzione antropologica dell’epoca, da lui stesso definita in questo modo, aveva distrutto, con il conformismo e l’omologazione, le identità e le personalità specifiche delle persone. C’era stato, pertanto, uno “sradicamento” totale delle identità con una degenerazione che era stata capace di distruggere “l’essere” in quanto tale ed il vero senso di “appartenenza”, e che aveva portato i giovani ad essere tutti uguali, i proletari ad essere vittime dell’omologazione generale, gli intellettuali ad essere prigionieri delle loro ideologie e delle convenzioni dettate dal conformismo.

PASOLINI SESSO E SENSUALITA’:

Pasolini stesso diceva che “i suoi film, purtroppo, non erano mai erotici” e che “il suo il suo erotismo non era erotismo vero perché lui stesso era inibito”. Nei suoi film l’eros assumeva sempre “ un rapporto drammatico e metaforico”. Infatti, l’eros per il Nostro era un vero dramma e basta pensare alla sua vita perseguitata fin dal principio dalle esperienze negative vissute per la sola “colpa” di essere un omosessuale: esempi pratici possono risultare il suo “all’allontanamento” dalla scuola, dal partito comunista e della Chiesa . Soprattutto nei suoi film, ed innanzitutto nella famosa “Trilogia della vita”, la “sessualità” era molto letteraria, figurativa ed indiretta “rivista e vissuta attraverso gli occhi dei protagonisti, dei ragazzi di vita, dei giovani”. È concepita, ritornando al suo famoso “manierismo”, come “un quadro o come un’opera di Chaucer o Boccaccio”. È una sessualità particolare e contraddistinta da aspetti “mai diretti, mai semplici, mai ricchi di carica vitale”.

E in conclusione:

“POESIA”, “POLITICA”, “RELIGIONE”, “OMOLOGAZIONE”

PASOLINI E I PROBLEMI DEL “SUO MONDO”:
L’adesione appassionata ed ortodossa di Pasolini al marxismo non ne fa un materialista tout court. L’opera e il pensiero di Pasolini risultano anzi profondamente impregnati di religiosità, in un senso generale, sostanziale ed ancestrale. La realtà stessa è sacra per Pasolini, indipendentemente dalle forme di culto che essa può assumere o che assume nel corso della storia, le quali in genere si rivelano più strumenti di dominio e di coercizione sociale, piuttosto che assolvere alla loro funzione originaria, quella di celebrare quotidianamente la realtà nei suoi aspetti più veri e l’uomo nella sua dimensione essenziale e carnale.Questa dimensione assolutamente sacra della realtà sta davvero alla base del pensiero e dell’opera di Pasolini e consente di dare una spiegazione, non certo esaustiva ma sicuramente fedele, a numerosi e celebri aspetti della sua produzione: l’adesione anche stilistica al realismo (è stato definito il più autentico erede del verismo verghiano), la partecipazione attiva al movimento contemporaneo del neorealismo( malgrado la profonda diversità ideologica rispetto ai principali esponenti di questa corrente), la conoscenza profonda del mito nei suoi aspetti antropologici e linguistici; ma la dimensione sacra della realtà risulta soprattutto alla base della sua visione politica e sociale, nella quale Pasolini scorge(e della quale denuncia violentemente) l’allontanamento dai valori autentici della vita in nome di un progresso mostruoso e perverso che mira infrangere il rapporto tra l’uomo e la natura.

La chiesa cattolica è fondamentalmente per Pasolini un’istituzione positiva che non rappresenta la religiosità dell’uomo nei suoi aspetti più veri, ma che contribuisce, ed in modo determinante, alla degenerazione dell’uomo, allontanandolo dai suoi istinti, attraverso un’idea di peccato che ne umilia quotidianamente la carnalità. A queste considerazioni di carattere generale va aggiunto il ruolo celebrativo e conservativo di progetti politici internazionali, tendenti alla snaturalizzazione dell’uomo contemporaneo, di cui Pasolini coglie la tragica attualità, che lo porterà all’abiura come stile di vita e al perseguimento palese di valori “altri” da quelli perseguiti o realizzati dalle masse occidentali del suo tempo.. E tuttavia, il rapporto tra Pasolini e il cristianesimo, in particolare con la figura di Cristo, non è altrettanto immediato, ed anzi può e deve essere letto e interpretato in modo assai più complesso e profondo. Soprattutto nella prima parte della sua produzione poetica, Pasolini esalta la figura di Cristo, vista e concepita già criticamente rispetto a come essa viene assimilata o digerita dai suoi contemporanei. Cristo è portatore di valori effettivamente eterni, reali e concreti, storici e terreni, in realtà carnali e profondamente umani. Non è infatti casuale la carnalità e,perché no, la sensualità, di cui la figura di cristo risulta permeata nelle prime opere poetiche Del Nostro e nello stesso Vangelo secondo Matteo, come risulta assai significativa l’ultima parte della raccolta “L’Usignuolo della chiesa cattolica” (La scoperta di Marx), nella quale Pasolini realizza un fortunato quanto unico confronto tra Cristo e Marx, le cui figure possono essere considerate, per molti versi, alla luce di un terreno comune. La riscoperta, la messa a nudo della sensualità dei corpi, della loro essenzialità, può infatti essere compresa alla luce dell’idea di FECONDITA’, anzi, di fecondazione, nel senso più concreto e letterale del termine. La fecondità implica necessariamente sacrificio, il proprio sacrificio. Ma sembra essere, questo, un destino al quale l’uomo ben difficilmente può sottrarsi, nel momento in cui sceglie di vivere la vita per quella che essa è. Sembra quasi di ribadire echi di filosofia nietzscheani, per la verità mai esplicitamente o direttamente richiamati dal Nostro: “una sola cosa comprendo: che sta per morire l’idea di uomo che compare nei grandi mattini” (Nuova poesia in forma di rosa”). L’uomo e tale in quanto fecondo, proprio in quanto produttivo, ma nel senso concreto, cristiano, strutturale e marxiano del termine.La fecondità è dunque sacrificio, ma il sacrificio è al tempo stesso santificazione e risulta inevitabilmente legato alla rinascita. Pasolini è dunque nemico della chiesa cattolica, ma è profondamente consapevole di essere giunto alle radici stesse del cristianesimo, di essere profondamente cristiano, nel momento stesso in cui si accorge non solo di averne colto il segreto ma di realizzare valori effettivamente cristiani, non soltanto attraverso la scrittura, ma soprattutto attraverso la vita quotidiana e il sacrificio personale. L’usignuolo della chiesa cattolica, letto in questi termini, celebra effettivamente la venuta di Cristo come salvatore, nel senso del sacrificio fecondo e salvatore di Cristo, che implica una rinascita. Quello stesso cristo che Pasolini, successivamente, ma al tempo stesso coerentemente con la sua accezione concreta e terrena di cristianesimo, andrà sempre più ad identificare con sé stesso e con la propria esperienza di vita.

Gli ultimi anni della vita e della produzione pasoliniana sono segnati da un profondo, palese e, come è stato addirittura definito, esibizionistico,distacco dal comunismo ufficiale, in quegli anni incarnato dalla politica nazionale del PCI, caratterizzata dal compromesso storico e quindi da una significativa svolta tendente a comprendere, se non proprio ad abbracciare, gli incipienti ma ben visibili valori del liberalismo occidentale, e quindi a realizzare un’alleanza, per quanto ancora tacita o trasversale con il centro cattolico. Questa svolta venne interpretata dal nostro autore in senso fortemente negativo, anche perché Pasolini, andando al di là delle proteste ancora “esteriori” dell’estremismo sessantottino, intuiva l’inizio di un processo storico che si sarebbe rivelato fagocitante e inarrestabile, al punto di rendere irriconoscibile l’antica matrice realista e marxiana del PCI, ed anzi da farne una forza politica e sociale di non secondo piano addirittura nell’affermazione dei nuovi valori neocapitalistici, anche se mascherata, e in maniera demagogica e perversa, sotto le spoglie di movimento democratico ed ispirato alla giustizia sociale. Anche e soprattutto sotto il profilo politico, dunque, Pasolini apparve ai più come una voce isolata, addirittura paradossale, nel momento in cui affermava( nei suoi articoli, nelle sue opere e nei suoi interventi pubblici e televisivi) la nascita di un nuovo sistema, non solo politico ma soprattutto sociale, tendente a trasformare l’uomo contemporaneo in senso degenerativo. I valori ideali e razionali primeggiano sulle istanze concrete e istintuali, la trasformazione economica è tale da porre fine al mondo contadino per trasformare la società in maniera da renderla sempre più, e indissolubilmente, dipendente dai processi industriali e capitalistici.;puntualmente (come Pasolini “profeticamente” arriva a prevedere”), nel corso degli anni sessanta si consuma quella adesione totale e inconsapevole degli italiani ai valori neocapitalistici, al punto che in un solo decennio essi non sono più in grado di ritrovare le loro origini, la loro matrice naturale e culturale: la matrice contadina, appunto. Tutto, Pasolini ha previsto, la degenerazione culturale, l’assoggettamento al consumismo, l’appiattimento ideologico,la corruzione dei partiti politici, addirittura il passaggi alla seconda repubblica, intesa come “evoluzione” dei movimenti politici italiani all’interno del sistema neocapitalistico, il totale assorbimento, insomma, degli italiani rispetto ai valori economici e politici del neocapitalismo, la globalizzazione intesa soprattutto come perdita della propria memoria storica, della semplicità del vivere, della negazione e della vergogna della propria carnale essenzialità e infine, se si vuole, del proprio sentimento di identità nazionale di matrice spiccatamente contadina.

Davanti a queste riflessioni profondamente personali e certamente incomprensibili ai più, Pasolini affronta la figura di Antonio Gramsci, che, come emerge dalla sua opera, costituisce non solo e non tanto un punto di riferimento letterario e culturale, quanto una dialettica intima, un discorso tragico ed appassionato con la propria interiorità.

Alla luce di queste considerazioni, Gramsci costituisce per Pasolini una passione giovanile, viene cioè riconosciuto come punto di riferimento culturale, ancora vivo, ma solo inizialmente, nelle istanze politiche del comunismo italiano,almeno fino ai primi anni sessanta. E’ il Gramsci dei Quaderni dal carcere, delle lunghe riflessioni sui mutamenti economici della società italiana, comunista per vocazione ed antifascista soprattutto in quanto nel fascismo riconosce concessioni troppo ampie ed incondizionate al capitalismo di tipo anglosassone. E’ il Gramsci che riconosce e profetizza quel profondo mutamento economico e culturale destinato a trasformare per sempre l’identità del popolo italiano, la sua concretezza, il suo realismo, il suo buon senso basato sulla dimestichezza con i processi naturali. Ma è anche il Gramsci punto di riferimento del tutto e meramente esteriore per il comunismo italiano, il Gramsci misconosciuto e storicizzato, certamente mistificato ma anche ignorato, per quanto riguarda la sostanza autentica del suo pensiero.





Autore Guerino Nisticò

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