Pubblicata in data : 23/11/2004
La questione meridionale, alla quale Verga era particolarmente interessato, guidò la sua mente letteraria e non alla scoperta della sua stessa terra, della Sicilia: non di una Sicilia mitica e leggendaria; ma della terra in cui viveva quella popolazione di derelitti dei quali egli aveva fin allora guardato senza sentirle poi così tanto vicine. Figlio del “naturalismo” considera l’arte un’arma capace di “ritrarre la verità della vita umana” e che deve rivolgersi agli strati più umili della società, perchè è là che si manifestano le leggi fondamentali della vita. Gli insegnamenti neorealisti gli fecero capire che l’arte non deve essere “facile pretesto di esibizionismo” per l’autore ma che essa deve risolversi in un “obiettivo” e “impersonale rendiconto”. Tutto ciò si accordava benissimo col suo nuovo bisogno di modestia, col suo riacquistato pudore, e lo induceva a sparire dietro i suoi personaggi o meglio a risolversi in essi, lasciandoli vivere con i loro gesti quotidiani, con le loro lacrime, con le loro parole. Questa nuova “direzione” , delineatasi in Verga in modo graduale, spinge il Nostro ad avere una nuova visione del mondo poiché, dall’evoluzionismo non trasse l’elemento ottimistico e cioè la “glorificazione del progresso” ma solo il senso drammatico della lotta. Infatti, la sua “pietas” di scrittore non si rivolgeva alla celebrazione dei “trionfatori” ma si piegava alle miserie dei vinti, che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei vincitori, dei “poveri diavoli” che la “corrente del progresso umano depone sulla riva dopo averli travolti”. Nacque così il suo “verismo” e s’impostò saldamente attraverso la sua nuova visione del mondo e della vita. Ciò era un ripudio totale aperto e radicale della vita elegante e salottiera dell’epoca che ora appariva in Verga vuota e segnata da una sterile inerzia e veniva fortemente condannata da lui perché moralmente ingiusta e falsa e fittizia. Così, partendo da questo presupposto, possiamo capire la “rivoluzione letteraria” del Verga che trovava la sua fondamentale centralità nell’insurrezione degli umili, nel diritto di cittadinanza accordato nell’arte ai “poveri diavoli”, ai cosiddetti “bruti”, di cui si svelano ora le pene, le angosce, il cuore dolorante, l’aspro sapore umano.
Quei “bruti” però, cosa importante da capire, non inveivano perché si accontentavano solo di vivere. Godevano le loro gioie effimere e fugaci e pativano le loro durevoli sofferenze. Ma la loro presenza, da sola, era una denuncia; la loro vita, nuda, era un’accusa vera e diretta. Tutta quest’umanità inferiore era stata concepita e assunta dallo scrittore in aperta polemica con l’umanità superiore ed è qui che si delinea il “senso dell’ineguaglianza sociale” e così il contrasto delle classi. Basti pensare, scendendo nel concreto delle sue opere, all’insurrezione dei contadini nella novella “Libertà” finita e spenta rapidamente in modo sanguinoso o meglio ad altre situazioni particolari che, senza essere così eccezionali per il loro carattere pacifico e normale, appariscono più pungenti e crudeli. Si pensi, un esempio fra i tanti, alla spaccapietre di “Mastro-don Gesualdo” :
<> . Nei “Malavoglia” sono descritti ancora i rancori, le pene, le miserie, le speranze, le lacrime di un intero villaggio di pescatori. Son tutti, chi più chi meno, povera gente che soffre, sempre pericolante sull’orlo della sventura e della fame. È la visione, pertanto, di un mondo triste e desolato, in cui gli uomini si dibattono vanamente, condannati, come sembrano, ab aeterno, senza nessuna speranza di redenzione. Sembra quasi un mondo piccolo e rinchiuso in se stesso ma la sua tragedia è nella relazione implicita con un mondo grande e occulto fatto dalle sfere sociali più alte dalle leggi e dallo Stato. Questi uomini sembrano presi e travolti dall’ingranaggio di una macchina invisibile dalla quale non “riescono ad uscirne vivi” . Anche i personaggi dei “Malavoglia” risultano una misera umanità di diseredati e di afflitti, di umiliati e di offesi, senza alcuna “aurora” di riscatto sociale. La loro esistenza è dominata dalle ferree leggi della miseria, da cui non è possibile evadere. Infatti, se qualcuno talvolta se ne stacca per pura “vaghezza dell’ignoto” o per brama, il mondo stesso, “da quel pesce vorace ch’egli è”, se lo ingoia insieme ai suoi prossimi(esempio: il caso di ’Ntoni dei “Malavoglia”). E se qualcuno, più astuto e tenace, riesce ad impadronirsi del “giuoco delle leggi economiche” e salire al “rango dei dominatori”, anche quella è vittoria effimera che si risolve in una più tragica sconfitta ( è il caso di mastro-don Gesualdo che da umile manovale qual era , giunge a competere con i pezzi grossi del paese e quasi a dominarli e per tutti quegli interessi minacciati contro di lui. E quando egli muore lontano dal paese, tradito perfino dalla moglie e dalla figlia, consapevole della sua sconfitta e dall’assoluta vanità e del fallimento di tutta la sua opera, intorno al suo cadavere si esercita il chiacchierio pettegolo e impudente della servitù. In tutto questo rientra la più alta protesta del Verga e il fremito più vasto della sua sorda e soffocata indignazione). Verga non vede nella “giustizia” l’applicazione di una legge di equità universale, ma un misero e ottuso meccanismo organizzato spesso a difesa degli interessi della classe dominante. Coi “Malavoglia” Verga era approdato ormai alla sua aspra e dichiarata visione economica della vita dove tutta la fitta rete delle manifestazioni e dei rapporti umani gli appariva governata da inesorabili leggi economiche, che mortificavano e soffocavano anche i sentimenti più puri. Così tra il mondo delle chiacchiere più o meno interessate e il mondo della realtà, e cioè quello del lavoro duro degli umili che tien su tutta la baracca, c’era una differenza incolmabile ed insanabile.
Autore Guerino Nisticò
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