Pubblicata in data : 9/5/2005
“AMBIENTE IN PERICOLO”
LANCIATO DAGLI SCIENZIATI L’ULTIMO DRAMMATICO GRIDO D’ALLARME SULLA TERRA CHE MUORE COME AFFRONTARE OGGI IL SERIO PROBLEMA DELLA DESERTIFICAZIONE… STUDI, RIFLESSIONI ED APPROFONDIMENTI SULLA “GRAVE MALATTIA DELLA TERRA”
OBIETTIVO G.S.V.S. : UN PERCORSO INTERESSANTE RIGUARDANTE I PROBLEMI PIÙ IMPORTANTI CHE AFFLIGGONO ATTUALMENTE IL NOSTRO MONDO, LA SALUTE DEL NOSTRO PIANETA, LA VITA ED IL FUTURO DI TUTTA L’UMANITÀ E DI TUTTI GLI ESSERI VIVENTI CHE ABITANO LA TERRA.
L’anidride carbonica che soffoca il pianeta, i deserti che avanzano, molte specie umane e vegetali che si estinguono, altre che si ammalano, il moltiplicarsi di frane e inondazioni, gli uomini che diventano troppi. A cadenze ormai sempre più ravvicinate gli scienziati lanciano il loro grido d’allarme sulla Terra che muore; si organizzano tavole rotonde o grandi “simposi internazionali”, ma poi ogni Paese prosegue sulla propria strada e noi stessi, molte volte, non ci preoccupiamo affatto della salute del mondo e del suo possibile futuro. Le grandi multinazionali continuano comunque a distruggere la foresta amazzonica, uno dei polmoni verdi del mondo, molte industrie a versare in mare o nei fiumi i residui delle loro lavorazioni e tanti di noi continuano a rendere l’aria irrespirabile con i gas delle auto o con il lasciare in giro rifiuti pericolosissimi. Per rendersi conto dell’emergenza ambientale non occorre andare lontano, soprattutto se si abita in una grande città: basta aprire la finestra della propria casa per verificare che l’aria, soprattutto nelle ore di maggior traffico, è diventata irrespirabile. I dati forniti infatti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) indicano un aumento delle malattie respiratorie e di alcune forme di cancro, quali quello della pelle e degli organi maggiormente legati alla qualità del cibo che mangiamo e dell’aria che respiriamo. Il problema, pertanto, ha una portata mondiale di notevole importanza e non nasce per caso, ma in seguito all’utilizzo irrazionale che soprattutto negli ultimi secoli l’uomo sta facendo delle risorse naturali a propria disposizione. Basti pensare che mille anni fa la Terra era coperta per oltre il cinquanta per cento da foreste mentre oggi tale percentuale è scesa al venti per cento. E ancora, che ogni giorno scompaiono duecento specie di animali o di uccelli. Di qui la necessità urgente di un accordo capace di coinvolgere Paesi ricchi e Paesi poveri per individuare, obiettivo fondamentale delle nuove politiche di sviluppo sostenibile, i confini dove la ricerca e lo sfruttamento a fini produttivi delle risorse naturali che il nostro pianeta ci offre debbano fermarsi per non mettere in pericolo la vita delle generazioni future. Tutto ciò è infatti quello che, in più di un’occasione, è stato definito lo “sviluppo sostenibile”, ma i cui limiti non sono così facili da concordare come potrebbe sembrare. Si tratta, di fronte ad una scelta economica e produttiva, di valutare, con il giusto peso nel rapporto costi-benefici, le conseguenze che quella scelta potrà comportare in termini di alterazione dell’equilibrio ambientale. E se del caso, nonostante il prodotto sia allettante ed economicamente idoneo a favorire grandi profitti, di lasciar perdere qualora si presentino possibili rischi di compromissione per l’ambiente. Con grande pessimismo si pensa a volte che nessuno sia veramente disposto ad operare in questo modo. Basti pensare a quanto avvenuto nel novembre del 2000 alla “Conferenza internazionale sul clima” svoltasi a L’Aja, in Olanda. Qui, i rappresentanti di 184 Paesi – che nel 1997, alla fine di un’analoga conferenza svoltasi a Kyoto in Giappone, avevano sottoscritto un protocollo d’intesa sulla riduzione dei gas serra – si erano riuniti per “passare dalle parole a fatti concreti e tangibili”, specificando i meccanismi di applicazione degli impegni assunti tre anni prima a Kyoto; in particolare, 38 Paesi si erano impegnati a ridurre entro il 2010 di almeno il 5 per cento le loro emissioni dei principali gas che producono “l’effetto serra” e detti perciò “gas serra” (problema affrontato ed approfondito meglio nella mia seconda verifica di G.s.v.s.). Sin dai primi giorni della trattativa in atto L’Aja era apparsa difficile e i Paesi divisi in due grossi schieramenti, su posizioni tra loro molto diverse. Da un lato c’erano i quindici paesi dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, e i Paesi in via di sviluppo, decisi a far rispettare gli impegni assunti a Kyoto, dall’altra Stati Uniti, Giappone, Nuova Zelanda, Australia e Canada, arrivati all’appuntamento olandese con l’obiettivo di far sì che a ridurre le emissioni di gas serra nell’ambiente fossero soprattutto gli altri. Ebbene, dopo una snervante settimana di trattative, gli organizzatori della conferenza olandese non hanno potuto fare altro, sotto i riflettori di tutto il modo, che riconoscerne il “fallimento”. Così, stato Uniti, Giappone e Canada si “sono tirati indietro” e, alla salvaguardia dell’ambiente, hanno anteposto le loro vecchie logiche politiche della produzione e dell’economia. Del resto, è capitato quasi sempre fino ad adesso, è apparso chiaro che, finchè si tratta di “mere enunciazioni di principio”, tutti sono d’accordo ma, quando si tratta di adottare “limitazioni concrete” molti non sono disponibili a frenare il proprio sviluppo economico. È quanto accade, anche, nel caso “dell’impegno ad arrestare la distruzione delle foreste”, sottoscritto in più occasioni da quegli stessi Paesi che continuano ad avanzare con le proprie ruspe tra gli alberi della foresta amazzonica. Il fallimento della Conferenza de L’Aja ha rimesso dunque in discussione il “principio di precauzione” che dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 i Paesi del mondo sembravano avere individuato come lo strumento razionale migliore per fondare il “nuovo ordine ecologico mondiale”. In Brasile, nel 1992, erano stati tutti d’accordo di pagare oggi il modesto prezzo dei tagli alle emissioni gas serra per evitare in futuro le conseguenze dell’aumento della temperatura planetaria. Nel 2000 a L’Aja si è invece di fatto abbandonato tale principio e fino all’ultimo Summit Internazionale di Johannesburg 2002 sullo Sviluppo Sostenibile, pensiero positivo e ottimistico riposto sul futuro dei suoi obiettivi, abbiamo vissuto un periodo critico e di stasi politico-internazionale che aveva fatto scemare le aspettative e le speranze “dei più” che non ci stavano ad adeguarsi al c.d. “principio di adattamento” ai problemi del mondo, ma che volevano e vogliono far di tutto per cercare di risolverli gradualmente nel corso degli anni, garantendo un futuro alle generazioni future.
INTRODUZIONE AL PROBLEMA DELLA DESERTIFICAZIONE:
Intimamente connesso al problema dell’inquinamento atmosferico ( trattato già nella II verifica ) è quello delle cosiddette “piogge acide”. Le sostanze inquinanti presenti nell’aria, per lo più acido solforico e nitrico, quest’ultimo originato dalla combustione di petrolio, carbone e metano, vengono riversate sulla superficie terrestre dalle piogge, spesso anche a migliaia di chilometri di distanza dalla fonte inquinante. Poiché si tratta di acidi, boschi e campi finiscono per essere distrutti a causa della perdita di clorofilla che ne consegue, e la vita della fauna terrestre e di quella marina finisce per essere compromessa. Spesso, però, la fine di una foresta è direttamente collegata all’atto volitivo dell’uomo. Un esempio in tal senso viene dalla distruzione in atto della foresta amazzonica e un po’ di tutte le foreste tropicali. Le foreste tropicali, con i loro alberi alti sino ad ottanta metri, coprivano oltre il 7 per cento delle terre emerse. Il loro ritmo di distruzione è andato, però, sempre più aumentando. Si è calcolato che ogni anno ne vengono distrutti almeno diciassette milioni di ettari. Se ci si vuole rendere conto della dimensione basti pensare che una superficie simile equivale alla metà dell’Italia e che è come se ogni minuto venisse distrutto nel mondo l’equivalente di sessantacinque campi di calcio. La colpa è soprattutto delle aziende che producono legname e carta. Gli Stati sul cui territorio si trovano le foreste tropicali, in balia dei loro problemi economici, concedono in cambio di danaro, cosa personalmente acquisita con la visione anche di alcuni reportage e documentari-dossier fatti in Tv, alle grandi multinazionali di tagliare i loro alberi. A ciò si aggiunge la pratica della “shiffing coltivation”, una forma primitiva di agricoltura praticata in molti Paesi tropicali che prevede l’incendio dell’area da sfruttare, una coltivazione di breve periodo della zona bruciata e il successivo passaggio ad un’altra zona. Intere foreste vengono inoltre poi distrutte dagli stessi abitanti del posto per trasformare i loro alberi in legne da ardere o per far posto a strade e costruzioni. Così, l’equilibrio biologico del suolo, una volta protetto dalla fitta vegetazione, ne viene perciò sconvolto: il sole brucia e rende in coltivabile la terra, cambia il clima, aumentano le piogge e inondazioni, non c’è ricambio di ossigeno e molte specie animali che vivevano nella foresta si avviano rapidamente all’estinzione. Le più importanti associazioni ambientaliste del mondo, WWf in testa, hanno negli ultimi decenni fatto della difesa delle foresta amazzonica uno dei principali obiettivi da perseguire, ma con risultati non sempre corrispondenti alle attese. Purtroppo gli interessi economici in gioco sono preponderanti e gli ambientalisti hanno spesso dalla loro solo la forza delle idee. Sappiamo inoltre, problema legato alla desertificazione, che esiste, oggi, un’altra grave minaccia che incombe quotidianamente anche sulla vegetazione nostrana: il fuoco e gli incendi. Ogni anno vanno in fumo, dall’Argentario alla Sardegna, dalla Liguria alla penisola sorrentina, migliaia e migliaia di ettari di vegetazione mediterranea. Ad armare la mano del piromane di turno sono interessi che vanno dalla speculazione edilizia ai posti di lavoro nell’attività antincendio che l’emergenza produce. Un altro problema, intimamente collegato a quello della desertificazione, risulta, oggi più che mai, quello delle “specie in via d’estinzione. Ogni giorno scompaiono cento specie animali e vegetali. La diversità genetica delle specie coltivate nel mondo è inoltre diminuita del settantacinque per cento. In agricoltura, per avere una quantità maggiore di raccolto, si punta, infatti, sulle “monoculture”. Si è calcolato così che in India, in un’area dove sino a qualche anno fa si coltivavano trentamila specie diverse, attualmente ci si dedica alla coltura di sole dieci qualità di riso. Oggi, per produrre alimenti si usano non più di una ventina di varietà vegetali e tre sole specie di piante, grano mais e riso, soddisfano da sole oltre metà del fabbisogno. Eppure di specie vegetali utilizzabili per l’alimentazione ce ne sono almeno settantacinquemila. Gli esperti del settore, e soprattutto i medici, denunciano con grande preoccupazione come fenomeni di questo tipo comportino non solo una diminuzione delle alternative alimentari, ma soprattutto la scomparsa di geni determinanti per combattere malattie ed epidemie. Citiamo come esempio concreto quanto accaduto nel 1970 negli Stati Uniti, dove le colture dell’unico tipo di mais ormai prodotto vennero colpite da un virus sconosciuto che nel giro di pochi mesi distrusse raccolti per un valore di un miliardo di dollari. Si scoprì che il gene capace di contrastare quel virus e di renderne il mais immune si trovava in una piccola pianta di mais africano che ormai nessuno coltivava quasi più. Quella pianta oggi, naturalmente, è stata riscoperta, ma potrebbero essercene tante, tra quelle che per ragioni di profitto si sono avviate all’estinzione, che avevano proprietà che neppure conosciamo. In campo animale, il rischio estinzione è ancora più diffuso. Si calcola che attualmente sono sopravvissute solo la metà delle specie animali esistenti all’inizio del ventesimo secolo. L’impoverimento della varietà biologica va avanti a ritmo incessante, mietendo vittime tra le specie ogni quarto d’ora. In pericolo sono soprattutto gli insetti, ma anche grandi animali come l’asino, il bufalo e alcune specie di capre e cavalli sono interessati al fenomeno. Le cause vanno ricercate nella distruzione delle foreste, nell’inquinamento di terra e acqua e nella caccia di frodo di specie protette. A rischio, spesso non ci pensiamo, è anche l’uomo, nella diversità delle sue stesse etnie. In Brasile, ad esempio, non passa mese che non scompaia una tribù di indios. Secondo recenti stime, delle duecentosettanta tribù esistenti nella zona all’inizio del secolo ne sono scomparse novanta, e oltre centoventi si quelle superstiti hanno meno di mille membri ciascuna. Stanno sparendo anche i famosi “pigmei” in Africa e gli “yanomani” dell’Amazzonia. E gli ultimi superstiti della popolazione seminomade dei “penam” sono minacciati nella loro esistenza dai “cacciatori di alberi”.
MA COS’È VERAMENTE LA “DESERTIFICAZIONE”?:
Alcune definizioni, riscontrate soprattutto durante l’interessante corso di lezioni di G.s.v.s, rimandano subito ed erroneamente “all’immagine di deserto” ma sappiamo benissimo che non si tratta di “espansione di deserti” o meglio ancora di “desertizzazione” ma di “degrado delle terre nelle zone aride, semi-aride e subumide secche provocato da diversi fattori, tra i quali le variazione climatiche e le attività umane”. Viene rappresentata, attraverso delle drammatiche immagini sul fenomeno viste soprattutto durante il corso, come una “malattia della pelle che può manifestarsi a macchie” e può perciò comparire anche a chilometri di distanza da qualsiasi deserto vicino. La cosa importante è pertanto quella di ostacolare il processo di espansione di queste macchie che, se non fermate in tempo, riescono gradualmente ad estendersi e congiungersi “fino a costruire zone in cui le condizioni di vita sono simili a quelle del deserto”. Praticamente questo grande problema-fenomeno si manifesta con la “diminuzione o la scomparsa della produttività e complessità biologica o economica delle terre coltivate, sia irrigate che non, delle praterie, dei pascoli, delle foreste o delle superfici boschive causate dai sistemi di utilizzo della terra, o da uno o più processi, compresi quelli derivanti dall’attività dell’uomo re dalle sue modalità di insediamento, tra i quali l’erosione idrica; il deterioramento delle proprietà fisiche, chimiche e biologiche o economiche dei suoli; e la perdita protratta nel tempo di vegetazione naturale” (Art 1.f.). A questo punto possiamo constatare come enormi e drammatiche sono le conseguenze che si riflettono sull’ecosistema e sulle condizioni dell’umanità e della vita di ogni uomo. Tali conseguenze, infatti, accrescono “l’incidenza di povertà, le carestie, gli esodi migratori, le tensioni politiche, economiche e sociali”. Purtroppo oggi, rivestendo delle connotazioni da vero problema globale, le preoccupazioni che suscita il fenomeno sono allarmanti e drammatiche su scala mondiale ed a ritmi accelerati perché ogni anno circa sessantamila chilometri quadrati di terreni vengono resi inutilizzabili. Abbiamo visto molte volte come, nell’immaginario collettivo, il termine “desertificazione” sia associato al “processo di espansione dei deserti sabbiosi” nonostante quest’ultima non corrisponda totalmente alla “complessità dei fenomeni di degrado del territorio in atto in Africa o altrove”. Però “un elemento comune che inconfutabilmente associa le aree soggette a desertificazione è costituito dalla progressiva riduzione dello strato del suolo e della sua capacità produttiva”. Pertanto, con il termine “desertificazione” si vuole indicare “ quel complesso di trasformazioni che portano un terreno, prima fertile, a divenire progressivamente sterile portandolo ad un vero degrado del suolo che perde la propria capacità di produrre biomassa, a tal punto che non è più possibile coltivarlo con le normali tecniche agronomiche”. Abbiamo perciò constatato che il “degrado dei suoli è spesso il punto di arrivo di una cattiva gestione del territorio, per quanto riguarda i Paesi sviluppati, e della crescente pressione demografica e della lotta per la sopravvivenza delle popolazioni più povere, per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo” e moltissime volte “il livello di degrado può essere accentuato dai cambiamenti climatici e dagli altri cambiamenti globali, che dipendono a loro volta dalle attività umane sul territorio”. A questo punto è molto importante “capire per tempo che un suolo si sta degradando” perché tale particolare attenzione “consente di mettere a punto le più idonee azioni di prevenzione capaci di impedire ulteriori degradi e di ripristinare le originali condizioni dei suoli”. Molte altre volte “il degrado dei suoli rappresenta il punto di partenza di un processo irreversibile o solo parzialmente reversibile” che viene appunto a definirsi: “desertificazione”. Pertanto “la desertificazione si può considerare come la fase finale del degrado delle potenzialità e delle capacità chimiche, fisiche e biologiche dei suoli nelle regioni aride o semi aride a causa di molti fattori, tra cui i più rilevanti sono le variazioni climatiche e le attività umane”.
UN PO’ DI STORIA POLITICA SUL PROBLEMA:
Precedentemente all’ultimo Summit sullo Sviluppo Sostenibile, tenutosi a Johannesburg nel 2002, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla desertificazione, con un summit tenutosi nel 1977 a Nairobi, adottò una definizione particolare sulla “desertificazione”: “riduzione o distruzione del potenziale biologico del terreno che può condurre a condizioni desertiche”, ed il tutto “prescindeva dalla collocazione geografica (polari o tropicali) delle aree colpite, dalle loro caratteristiche climatiche, dalle cause (naturali o antropogeniche) e dai processi (salinizzazione, erosione, deforestazione) all’origine del degrado del potenziale biologico del suolo”. L’importanza del lavoro svolto dalla Conferenza di Nairobi sta soprattutto nel fatto che, da quel momento in poi, iniziò una vera campagna di sensibilizzazione delle grande masse ed una seria mobilitazione politica internazionale dei paesi sviluppati ed industrializzati con interventi ed obiettivi che, purtroppo, poi negli anni non hanno avuto risultati soddisfacenti. Si arrivò così alla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio del 1992 che “approvando l’Agenda 21, indicò, nella cooperazione internazionale finalizzata allo sviluppo sostenibile dei paesi più poveri, una nuova strategia nella lotta al degrado ambientale”. Da qui nacque una nuova definizione di desertificazione : “degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuite a varie cause, fra le quali variazioni climatiche ed attività umane”. Quest’ultima definizione allargava, rispetto alle precedenti, il campo di analisi del problema-fenomeno ed introduceva fra le cause principali le diverse variazioni climatiche e l’intervento deleterio dell’uomo. A questo punto il problema assunse dimensioni e connotazioni serie e globali e si pose come obiettivo primario quello “per la Lotta contro la Desertificazione nei paesi colpiti da grave siccità e/o desertificazione, con particolare urgenza in Africa e si prefiggeva di affrontare le dimensioni sociali ed economiche della desertificazione della stessa Africa” poiché continente maggiormente colpito e minacciato dal problema, “non limitandosi solo agli aspetti agro-forestali del problema, ma dando molta importanza alla crescita della capacità di pianificazione e di intervento sia a livello nazionale che a livello locale”. Nel corso delle lezioni abbiamo inoltre visto che il problema della “desertificazione e del degrado delle terre” interessa moltissimo anche i paesi europei che sono bagnati dal Mar Mediterraneo. Anche l’Italia con le sue regioni meridionali ed insulari rientra nelle zone a rischio poiché sono “esposte a stress di natura climatica ed alla pressione, spesso non sostenibile, delle attività umane” , ma il problema viene affrontato in modo molto diverso da quello dei paesi in via di sviluppo ed è politicamente portato avanti dalla “implementazione della Convenzione e dell’Agenda 21 che si prefigge di individuare nuove alternative di salvaguardia ambientale e di sviluppo”.
CAUSE, EFFETTI E PROCESSI DI DESERTIFICAZIONE:
• PIOGGE SCARSE • MARCATA VARIABILITÀ DELLE PRECIPITAZIONI • SICCITÀ PERSISTENTI • DETERIORAMENTO DELLE STRUTTURE DEI SUOLI • EROSIONE DEL VENTO E DELL’ACQUA
Secondo le stime del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme - UNEP), un quarto delle terre del pianeta è minacciato dalla desertificazione. Le esistenze di più di un miliardo di persone in oltre 100 nazioni sono a propria volta messe a rischio dalla desertificazione, dal momento che la coltivazione e il pascolo divengono meno produttivi. Desertificazione quindi non vuol dire che i deserti stanno avanzando costantemente o prendendo il possesso delle terre vicine. In base alla definizione della Convenzione ONU, la desertificazione è un processo di "degrado dei terreni coltivabili in aree aride, semi-aride e asciutte sub-umide in conseguenza di numerosi fattori, comprese variazioni climatiche e attività umane". Chiazze di terreno degradato possono trovarsi a centinaia di chilometri dal deserto più vicino. Ma esse possono espandersi ed unirsi l'una con l'altra, creando delle condizioni simili a quelle desertiche. La desertificazione contribuisce a creare altre crisi ambientali, quali la perdita della biodiversità ed il riscaldamento della temperatura su scala planetaria. La maggior parte delle regioni che rischiano di tramutarsi in terre aride si trovano in prossimità delle cinque principali aree desertiche mondiali; si tratta de:
• il Deserto di Sonora nel Messico nord-occidentale e la sua continuazione nella parte sud-occidentale degli Stati Uniti; • il Deserto di Atacama, una sottile striscia costiera in Sud America tra le Ande e l'Oceano Pacifico; • una larga area desertica che dall'Oceano Atlantico corre verso oriente in direzione della Cina e che comprende il Deserto del Sahara, Il Deserto Arabico, i deserti dell'Iran e dell'ex-Unione Sovietica, il Gran Deserto Indiano (Thar) nel Rajasthan ed infine i deserti del Takla-makan e del Gobi, che si trovano rispettivamente in Cina ed in Mongolia; • il Deserto del Kalahari in Sud Africa; • Gran parte dell'Australia. Vi sono poi altre aree che debbono essere attentamente considerate: • in Africa, il 66 per cento di tutti i terreni è arido o semi arido; nel Nord America, invece, questa percentuale è del 34 per cento. • l'Ufficio per la Gestione dei Terreni USA considera vulnerabile a fenomeni di desertificazione circa il 40 per cento del territorio continentale degli Stati Uniti. Almeno il 40 per cento dei terreni da pascolo del Texas è già troppo arido per poter essere utilizzato. • le terre emerse coprono oltre un terzo di tutta la superficie terrestre, di queste i deserti rappresentano circa il 7 per cento. Le attività per contrastare la desertificazione si concentrano sul prevenire la creazione di "condizioni simili a quelle desertiche" nelle terre emerse. • il granaio dell'Impero Romano in Nord Africa, che un tempo aveva ospitato 600 città è oggi ridotto ad un deserto.
La desertificazione spesso deriva dalla siccità, ma spesso le ragioni più significative per tale fenomeno sono rappresentate dalle attività umane. Le coltivazioni intensive esauriscono il suolo. L'allevamento del bestiame elimina la vegetazione, utile a difendere il suolo da fenomeni erosivi. Gli alberi che trattengono il manto superficiale del terreno vengono tagliati per essere utilizzati come legname da costruzione o come legna da ardere per riscaldare e cucinare. L'attività irrigua effettuata con canali e tubazioni scadenti rende salmastre le terre coltivate, desertificando 500.000 ettari all'anno, più o meno la stessa estensione di terreno che viene irrigata ex novo ogni anno.Le cause che stanno dietro a questo fenomeno sono numerose e comprendono fattori economici e sociali nei paesi in via di sviluppo quali la povertà, gli elevati tassi di crescita della popolazione, l'ineguale distribuzione delle proprietà terriere, l'afflusso di rifugiati, la modernizzazione che fa abbandonare le tradizionali tecniche di coltivazione e le politiche governative che incoraggiano le colture commerciali al servizio del debito estero svolte sulle terre marginali. La vita sulla terra si basa su quello strato superficiale del terreno che fornisce i nutrienti necessari alle piante, alle colture, alle foreste, agli animali ed alle persone. Senza di esso, in definitiva, nessuno potrebbe sopravvivere. Sebbene questo strato abbia bisogno di lungo tempo per svilupparsi, se non viene curato in maniera appropriata, esso può scomparire in poche stagioni a causa dell'erosione che deriva dall'attività del vento e dell'acqua. Vediamo pertanto benissimo come il processo di desertificazione sia largamente e fondamentalmente attivato ed innescato dalle “oscillazioni naturali climatiche” e “dall’eccessiva pressione umana sulle risorse” Tra le cause naturali vanno considerati alcuni fenomeni di origine climatica direttamente legati alle caratteristiche delle precipitazioni (aridità e siccità). L'aridità è determinata dalla contemporanea scarsità della pioggia (aree con precipitazioni annue dell'ordine dei 200-400 mm), e dalla forte evaporazione che sottrae umidità ai terreni. Per valutare il grado di aridità di un'area la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sulla lotta alla Siccità e alla Desertificazione ha adottato come Indice di aridità (Ia) il rapporto fra la Precipitazione (P) e l'Evapotraspirazione Potenziale (EPT), nelle condizioni climatiche medie riferite ad un arco temporale di almeno trenta anni (Ia = P/EP-Aridità nel Mondo e in Italia). La siccità è invece un fenomeno che colpisce anche aree non aride quando le precipitazioni sono sensibilmente inferiori ai livelli normalmente registrati: tale eventualità può determinare condizioni di degrado del territorio producendo danni alle attività produttive agrarie e zootecniche. Mentre infatti gli ecosistemi naturali hanno generalmente, la necessaria resilienza per superare periodi di siccità, i settori produttivi che dipendono da un costante apporto di acqua possono essere danneggiati. La siccità nelle zone aride può inoltre rompere il fragile equilibrio fra risorse ambientali ed attività produttive portando crisi alimentari, abbandono di territori e perfino migrazioni e conflitti. Da qui si evince il forte legame tra aspetti ambientali, economici e sociali. I recenti studi sul sistema climatico globale condotti soprattutto in ambito IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) hanno messo in evidenza che il clima del nostro pianeta sta subendo, soprattutto in questi ultimi decenni, alcuni cambiamenti che potrebbero portare, se le attuali tendenze di sviluppo socio-economico e di uso delle risorse naturali non venissero modificate, a trasformazioni profonde ed irreversibili sia dell'ambiente che della stessa società umana nei prossimi 50-100 anni.
FATTORI INNESCATI DALL’UOMO:
• CADUTA IN DISUSO DI PRATICHE COLTURALI MILLENARIE CHE CONTRIBUIVANO ALLA CONSERVAZIONE DEI SUOLI • INTRODUZIONE DELL’AGRICOLTURA SECCAGNA, CHE ATTIVA I PROCESSI DI EROSIONE ACCELERATA • ECCESSIVO EMUNGINAMENTO DELLE FALDE FREATICHE • DIFFUSIONE DELL’AGRICOLTURA IRRIGUA A FINI PRODUTTIVI SENZA ADEGUATE RETI DRENANTI, CHE INNESCA MECCANISMI DI SALINIZZAZIONE • SMODATO SFRUTTAMENTO DEI PASCOLI E DISBOSCAMENTO SELVAGGIO PER PROCURARE LEGNA DA ARDERE Le cause di origine antropica che contribuiscono a determinare il degrado del suolo sono molteplici e generano processi di desertificazione diversi a seconda delle condizioni ambientali. I processi degenerativi dovuti all'azione dell'uomo si verificano in modo particolare laddove esiste una particolare vulnerabilità climatica e dove sussistono fattori predisponenti legati a tipologie territoriali e caratteristiche ambientali • ECOSISTEMI FRAGILI (tutte quelle aree caratterizzate da delicati equilibri bio-fisici, quali ambienti di transizione, lagune e stagni costieri, aree dunari e retrodunari, aree calanchive) • LITOLOGIA (formazioni sedimentarie argilloso-sabbiose, ecc.) • IDROLOGIA (aree di ricarica degli acquiferi, falde superficiali, aree costiere, ecc.) • PEDOLOGIA (scarsa profondità dello strato pedogenetico, mancanza di struttura, scarso contenuto di sostanza organica, scarsa permeabilità, ecc.) • MORFOLOGIA (forte acclività, esposizione dei versanti agli agenti atmosferici, ecc.) • VEGETAZIONE (terreni privi o con scarsa copertura vegetale, ecc.) • AREE GIA' COMPROMESSE (aree disboscate, aree già sottoposte ad attività estrattive, discariche, siti contaminati, ecc.).
UNO SGUARDO SULLA VULNERABILITÀ DELLE RISORSE NATURALI:
Le Regioni italiane che possono essere considerate in massima parte a rischio di desertificazione sono quelle del mezzogiorno, dove il fenomeno rappresenta una vera e propria emergenza ambientale,che influisce sullo sviluppo socio-economico dell'area. Sono infatti riscontrabili varie forme di degradazione ecologica delle risorse naturali, che dipendono da una combinazione di fenomeni: a) sfruttamento da parte dell'uomo delle risorse del territorio superiore alle sue capacità naturali; b) fragilità ecologica intrinseca del sistema di risorse del territorio; c) condizioni climatiche avverse, in particolare, periodi ricorrenti di forte siccità. Le risorse che maggiormente risentono di questo squilibrio sono suolo e acqua. In queste aree sono presenti diversi processi di degradazione dei suoli, tipici dell'area del mediterraneo, tra questi l'erosione idrica è il più importante e diffuso ed è causata principalmente dalla forte aggressività delle piogge (precipitazioni molto intense), espressione di un clima tipicamente mediterraneo, dalla notevole erodibilità dei suoli e dalle particolari condizioni morfologiche. Tra i processi di degradazione chimica uno dei più gravi è rappresentato dalla perdita di sostanza organica del terreno, mentre lungo le fasce costiere si accentua sempre di più il fenomeno della salinizzazione delle acque e dei suoli. L'innalzamento del tenore di salinità dei suoli è dovuto alla risalita capillare ed all'utilizzo di acque ricche in sali, a causa del crescente fenomeno di intrusione di acque marine nei corpi acquiferi continentali - a sua volta determinato dal massiccio emungimento, spesso incontrollato, delle acque dolci sotterranee - ed a non corrette pratiche irrigue. Ciò implica che si irriga con acque via via più salate, e gli effetti risultano tanto più gravi quanto minore è la permeabilità del substrato, che non consente una spontanea perdita dei sali verso gli strati più profondi. L'Italia è un Paese potenzialmente ricco d'acqua, grazie alla presenza di estesi acquiferi calcarei e alluvionali che favoriscono l'accumulo nel sottosuolo di ingenti risorse, ma la ricchezza di acque sotterranee è compromessa da un uso dissennato della risorsa stessa, caratterizzato da prelievi eccessivi e non pianificati nonché dall'inquinamento puntiforme e diffuso di diversa origine (urbana, agricola, industriale etc.). Il fabbisogno idrico complessivo in Italia è pari a circa 32 miliardi di mc/anno, distribuiti in maniera disomogenea sul territorio nazionale: 22,9 miliardi di mc/anno al nord, 2,3 al centro e 7,6 al sud. Il 66% di tale fabbisogno è soddisfatto da acque di fiume, il 6% da acque di lago e di invaso e il 28% da acque sotterranee. Nell'ultimo decennio, in particolare, si è assistito ad un raddoppio della quantità di acqua attinta da corpi d'acqua superficiali, mentre l'acqua emunta mediante pozzi è passata da ca. 89.000 l/sec a ca. 115.000 l/sec (dati riguardanti la portata minima). L'incremento dei fabbisogni idrici e la concentrazione dei consumi in aree ben delimitate, a fronte di una non sufficiente disponibilità della risorsa, genera un uso competitivo tra più attività economiche ed il contesto urbano, determinando spesso aspri conflitti sociali. INTEGRARE L'USO AGRICOLO DEL TERRITORIO NELLA PREVENZIONE AMBIENTALE: Una delle attività economiche che in parte contribuisce a determinare questa situazione di allarme ambientale e sociale è l'agricoltura. I principali fattori di pressione ambientale relativi all'agricoltura sono i seguenti: • diminuzione della Superficie Agraria Utilizzata (SAU) in favore di insediamenti industriali o civili e di infrastrutture; • intensificazione colturale, concentrazione e specializzazione produttiva, aggravati dalla limitata disponibilità di terreni agricoli di buona fertilità che genera elevate intensità d'uso con i connessi problemi di inquinamento, degrado del suolo, erosione, uso non razionale dell'acqua; • abbandono delle attività agricole in aree marginali o comunque meno produttive. Eppure l'agricoltura oltre al cibo, produce: • ambiente con una insostituibile funzione di presidio e manutenzione del territorio, • paesaggio, • cultura (prodotti tipici e gastronomia), • salute e benessere (qualità dei cibi e fruizione del territorio), • servizi (agriturismo, turismo rurale e naturalistico, ricreazione e didattica), per cui non risponde più solo ai bisogni primari del consumatore, ma è anche e soprattutto strumento per il miglioramento dell'ambiente e della qualità della vita. Bisogna ricordare che l'agricoltura subisce, con gravi danni anche produttivi, l'inquinamento generato da fattori extragricoli, quali le attività industriali, gli insediamenti civili, i trasporti e le infrastrutture, i cambiamenti climatici globali. Questi fattori esterni al settore erodono le risorse su cui l'agricoltura stessa si basa, minacciandone in qualche caso la stessa sopravvivenza. Sarebbe opportuno approfondire questi aspetti, al fine di giungere a conoscere, prevenire e mitigare i fenomeni di degrado.Da alcuni anni le considerazioni ambientali hanno assunto un rilievo essenziale nell'ambito della PAC. La necessità di integrare la dimensione ambientale nella politica comunitaria ha trovato concreta applicazione nell'Atto unico europeo del 1986. Nell'ambito del vertice di Rio, gli Stati firmatari hanno adottato una serie di dichiarazioni e convenzioni di fondamentale importanza per l'agricoltura e la silvicoltura. Il 5° Programma di Azione Ambientale e il suo riesame nel 1995 hanno rafforzato la necessità di integrare le tematiche ambientali nella PAC. Il trattato di Amsterdam ha inserito lo sviluppo sostenibile tra gli obiettivi dell'Unione europea, mantenendo al tempo stesso le basi giuridiche dell'attuale trattato per la politica agricola e ambientale. Il Consiglio europeo di Cardiff del giugno 1998 ha riconosciuto l'impegno della Commissione di integrare la dimensione ambientale in tutte le politiche comunitarie e la necessità di valutare questo elemento nelle singole decisioni. Il Consiglio europeo di Vienna del dicembre 1998 ha evidenziato l'importanza di assicurare che l'integrazione ambientale venga presa debitamente in considerazione nelle decisioni sulle politiche agricole da adottare nel quadro dell'Agenda 2000. La strategia ambientale dell'Unione europea nel quadro della PAC si fonda su misure agro-ambientali mirate, in particolare nelle zone rurali, che vanno oltre il livello di base della buona pratica agricola e della legislazione ambientale e fanno parte integrante dei programmi di sviluppo rurale.
L'AGRICOLTURA-SOSTENIBILE Debbono essere salvaguardate e sviluppate le risorse naturali (acqua, suolo, biodiversità, paesaggio). A questo fine, non si deve sottrarre territorio all'uso agricolo, ma si deve integrare l'uso agricolo nella conservazione della natura. Deve essere promosso lo sviluppo delle aree rurali, salvaguardando le culture locali, promovendo la multifunzionalità delle imprese agrarie e forestali, tutelando la tipicità ed il contenuto culturale delle produzioni, migliorando la fruibilità del territorio da parte dei cittadini. Deve essere promossa la gestione sostenibile delle foreste sia di proprietà di enti pubblici, sia di proprietà privata. Deve essere perseguita l'espansione della copertura del territorio con specie forestali autoctone, in modo da rigenerare le risorse naturali, costruire habitat idonei alla conservazione della biodiversità, mitigare il degrado ambientale.È necessario integrare meglio le politiche commerciali, di mercato, di sviluppo rurale e dell'ambiente, prevedendo adeguati obblighi di controllo, relazione e valutazione. Occorre altresì prevedere misure per internalizzare i costi ambientali nei costi dei prodotti agricoli e dei processi produttivi; considerare, infine, il valore economico generato dalla protezione che esercita il bosco (contenimento delle frane e del degrado del suolo, ottimizzazione del ciclo dell'acqua, ecc.) sul territorio ed incentivare finanziariamente tale funzione ecologica svolta dagli agricoltori.L'adozione di un approccio integrato e sostenibile allo sviluppo delle aree rurali, inoltre, è indispensabile per favorire l'affermarsi del ruolo multifunzionale dell'agricoltura, che il nuovo regolamento sul sostegno allo sviluppo rurale pone tra i suoi obiettivi prioritari. La salvaguardia dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale (architettura, attività tradizionali e artigianali), infatti, costituisce il presupposto per lo sviluppo delle attività turistiche, che gli agricoltori e altri operatori economici possono sollecitare tramite il ripristino degli immobili rurali e la fornitura di servizi (ricettività, ristorazione, attività ricreative e terapeutiche) ai turisti. L'importanza della elaborazione di indicatori ambientali è stata sottolineata da più parti. Essi possono contribuire a trasformare dati fisici ed economici relativi alle attività umane e alla situazione ambientale in informazioni rilevanti ai fini dei processi decisionali. Tali indicatori possono aiutare a migliorare la comprensione di fenomeni complessi nel settore dell'agricoltura e dell'ambiente, seguire l'evoluzione nel tempo di tali fenomeni e fornire indicazioni quantitative. Tutti questi fattori sono indispensabili per l'attuazione delle politiche di sviluppo sostenibile dell'agricoltura, per l'adeguamento delle politiche agli obiettivi e per la verifica del loro raggiungimento, secondo il principio che i fenomeni che possono essere misurati, possono anche essere governati. L'Italia è un Paese con un grande mercato di tecnologie importate. Forte è l'esigenza di un efficace impegno di ricerca: o sviluppiamo noi le tecnologie relative alla specificità dell'agricoltura italiana, contribuendo a dare competitività ai nostri prodotti, o aspettiamo che facciano altri - i nostri concorrenti - con grave perdita di competitività.Il momento della ricerca può quindi essere determinante e vincente. Superate le esigenze primarie e disponendo di un reddito stabile o crescente, il consumatore medio viene indirizzato dall'ambiente socioculturale in cui vive a valorizzare e ricercare prodotti di pregio. Deve essere assicurata l'offerta di cibo sano e di qualità, e debbono essere garantiti anche per il futuro prezzi accettabili - attualmente il valore di mercato di 1000 quintali di grano non supera un modesto salario annuo - in modo da soddisfare i desideri dei consumatori, accrescendone la salute ed il benessere. Il ricorso alle norme di qualità di sistema (ISO 9000) e di certificazione ambientale (EMAS, ISO 14001) è un tema a cui la UE fa riferimento.
Un circuito virtuoso per l'agricoltura italiana: Esso lega la domanda del cittadino di alimenti, di ambiente e di servizi, con la qualità certificata e con le potenzialità della produzione agricola sul territorio nazionale. Infatti, la domanda si muove verso prodotti alimentari a più elevato contenuto salutistico e di innovazione, verso beni quali il presidio ed la manutenzione del territorio, il paesaggio, i prodotti tipici, la fruizione del territorio, l'agriturismo, il turismo rurale e naturalistico; la qualità emerge come strategia generale, seppur differenziale, delle produzioni agroalimentari e dell'ambiente; l'agricoltura italiana, pertanto, con le sue peculiarità, può ottenere vantaggi competitivi corrispondendo a tale domanda. L'integrazione dell'agricoltura nella valorizzazione delle risorse naturali può diventare in molte aree dell'Italia il motore dello sviluppo locale. Le “attività umane possono pertanto indurre desertificazione dei suoi ubicati in regioni aride o semi aride, o accelerare i processi di desertificazione naturali”. Le “aree del Sahel, dello Yemen e del Mendoza argentino” sono esempi lampanti e concreti di deserti indotti dall’intervento deleterio dell’uomo. Secondo l’UNEP, come già visto sopra, (United nations environmental program) “dei circa 5 miliardi di ettari utilizzati in agricoltura in aree semi aride o prospicienti ai deserti, bel il 70% circa di questi suoli è già degradato e gran parte di esso soggetto a desertificazione o a forte rischio di desertificazione”. A questo punto notiamo come sia molto importante, all’interno del problema “desertificazione”, capire quali siano le gravi conseguenze che scaturiscono dal fenomeno e quale sia la “rilevanza del fattore suolo” all’interno del suo pericoloso processo: QUALI, ALLORA, I DANNI E LE CONSEGUENZE DELLA DESERTIFICAZIONE: • DISTRUGGE LA BIODIVERSITÀ • INNESCA RETROAZIONI POSITIVE PER L’ACCENTUAZIONI DI FENOMENI DI RISCALDAMENTO CLIMATICO • CONTRIBUISCE A METTERE A RISCHIO LA SOPRAVVIVENZA UMANA • DETERMINA GRANDI MIGRAZIONI DI POPOLI VERSO ALTRI TERRITORI CON L’INNESCO DI PROBLEMI ETNICI E DI CONFLITTUALITÀ SOCIALE L’IMPORTANTE RILEVANZA DEL FATTORE SUOLO: “Il processo di degrado, infatti, che degenera in desertificazione, avviene normalmente nelle aree marginali o circostanti i deserti già esistenti attraverso”: • L’USO INTENSIVO E INSOSTENIBILE DEL SUOLO PER L’AGRICOLTURA O LA PASTORIZIA • IL DISBOSCAMENTO DI BOSCHI E FORESTE • GLI INCENDI, VOLONTARI O INVOLONTARI, DELLA COPERTURA VEGETALE ESISTENTE Per poter capire meglio tutte le diverse sfaccettature del problema “desertificazione” è molto importate introdurre all’interno del suo studio la significativa “rilevanza del fattore suolo” cercando di capire innanzitutto cosa sia veramente “un suolo” e quali processi avvengano con la desertificazione. Innanzitutto un suolo risulta un vero “sistema vivente in continua trasformazione che ha preso origine dalla alterazione chimica e fisica di un substrato originario- la roccia madre- per l’azione congiunta di diversi fattori”: • Il clima con le sue temperature e le piogge e quindi l’umidità • L’attività biologica esercitata dalla vegetazione e dalla fauna • L’intervento dell’uomo soprattutto con le sue pratiche di agricoltura • La morfologia del terreno e cioè la sua pendenza, la sua esposizione e la sua quota • Il fattore tempo legato intimamente a tutti i fattori precedenti COSA AVVIENE? In molti casi, tutti i suoli sfruttati dall’uomo, in una posizione marginale ai deserti, attraverso le loro pratiche di agricoltura e pastorizia o allevamento del bestiame “perdono a mano a mano il proprio patrimonio di materiale organico e di nutrienti naturali che vengono sostituiti o profondamente modificati da fertilizzanti e dai fitofarmaci”. A questo punto “i suoli perdono le loro capacità di autoregolamentazione e di omeostasi basate sui cicli biogeochimici naturali che si sono instaurati nell’ambiente esistente”. Possono anche influire altri fenomeni molto dannosi che deteriorano ancor più il suolo, come la “salinizzazione” dove “il suolo, soggetto a forte insolazione solare ed a forte evapotraspirazione ed ormai privo si nutrienti, di materiale organico e dei propri cicli naturali che regolamentano anche l’umidità dei terreni, va inesorabilmente verso la desertificazione e in pochi anni diventa deserto”. Tale dannoso fenomeno spesso avviene in periodi caratterizzati da forte siccità ed è molte volto dovuto, tipo in zone costiere, “all’intrusione dell’acqua marina con interessamento della falda idrica sotterranea” a tal punto che si hanno degli effetti negativi soprattutto per l’agricoltura. Nel caso dei suoli, il processo di salinizzazione risulta spesso irreversibile perché una volta instaurato il processo di degrado, un’eventuale pioggia non potrebbe fare nient’altro che contribuire maggiormente alla sua ormai prossima desertificazione provocando l’erosione del terreno ed aggravandone ulteriormente il suo stato con il c.d. fenomeno del “ruscellamento” attraverso il quale “l’acqua piovana dilava i terreni scorrendo superficialmente e desponendo pertanto i suoli ad un’avanzata successiva del deserto, non appena le piogge cessano e riprende nuovamente l’azione della intensa insolazione e della forte evapotraspirazione”. Nel caso invece si trattasse del “disboscamento o della distruzione della copertura vegetale”, frutto di incendi volontari o dolosi, il suolo invece “perde immediatamente le sue caratteristiche di umidità che la copertura vegetale gli assicurava”. Cosa avviene pertanto in questi casi?: il suolo, appena si verificano delle pericolose condizioni di siccità, si ritrova totalmente esposto all’erosione del vento poiché privo dell’importante “Humus superficiale” che lo proteggeva e che è ora distrutto e definitivamente degradato. Anche in questi casi la l’eventuale piovosità alternata a periodi di siccità può aggravare ulteriormente il degrado del suolo trasformandolo in deserto. Qui “l’azione umana sull’erosione dei suoli raramente è diretta, ma , esalta indirettamente l’azione degli agenti naturali ed è particolarmente evidente nella fascia tropicale e sub tropicale ed in genere nei Paesi in via di sviluppo” dove per tantissimi motivi legati soprattutto alle loro misere condizioni di vita, prima avviene una feroce deforestazione, fatta per cercare poi di commercializzare la legna, per ottenere, inseguito, delle aree grandi utilissime per le loro pratiche non idonee di agricoltura. Tali pratiche, infatti, distruggono incredibilmente il suolo e fanno diventare i terreni improduttivi a tal punto che vengono poi abbandonati e lasciati al loro destino e cioè all’erosione ed alla loro totale desertificazione. Questo avviene ripetutamente, senza alcun freno, da terreno in terreno, in modo assurdo ed assolutamente pericoloso per il clima globale e per tutta la biodiversità mondiale. Per contrastare pertanto l’innesco di seri ed insanabili processi di desertificazione è importante agire subito “sul mantenimento e sul controllo della copertura vegetale dei suoli e, qualora il suolo venga adibito ad agricoltura intensiva, è necessario che le coltivazioni siano compatibili con le caratteristiche naturali dei terreni e dell’ambiente esistente e che tali caratteristiche vengano rafforzate e non depauperate”. È, pertanto, molto importante, “proteggere la biodiversità esistente soprattutto sui suoli a maggior rischio di acidificazione, sostenendo le condizioni naturali di ciclo dell’acqua nel suolo e nel sottosuolo”.
L’IMPORTANZA DELLA “COPERTURA VEGETALE” Abbiamo visto che sono moltissimi i fattori che innescano la desertificazione e tra i più frequenti ci siano il “disboscamento” e la “deforestazione” che l’uomo compie con il suo intervento deleterio distruggendo migliaia e migliaia di ettari di “copertura vegetale” e di tutte quelle “piante ad alto fusto” che hanno una “rilevantissima azione antierosiva” per la tutela naturale del suolo e dei terreni. Infatti, la copertura vegetale, attraverso la chioma dei suoi alberi, riesce a trattenere parzialmente l’acqua utilizzandone direttamente una parte e lasciandone passare in profondità un’altra riducendone anche la quantità e la velocità di scorrimento. “L’utilità della foresta dal punto di vista ecologico è pertanto molteplice” perché: • Limita l’azione erosiva creando una circolazione profonda delle acque meteoriche e consentendo l’alimentazione delle sorgenti e l’arricchimento delle falde • Costituisce una copertura ombreggiante che diminuisce l’insolazione diretta sul terreno e perciò la distruzione della sostanza organica • Con la fotosintesi clorofilliana si ha la formazione di idrati di carbonio ed emissione di ossigeno, e questa reazione sta alla base della formazione di nuova biomassa vegetale, ossia la sostanza organica necessaria alla fertilità dei suoli • Si ha l’immissione nell’atmosfera di ingenti quantitativi di acqua d’evaporazione con la creazione di specifici microclimi • Le foreste formano barriere naturali ai venti limitandone l’azione erosiva ed essiccante “LA BOMBA CLIMATICA A TEMPO” :
Più di 160 governi hanno firmato nel giugno 1992 (Earth summit di Rio) la Convenzione sui cambiamenti climatici, che li impegna a stabilizzare le concentrazioni in atmosfera di anidride carbonica e di altri gas a effetto serra a livelli che non costituiscono un pericolo. Nonostante questo, i governi ritardano ancora la messa in atto di programmi idonei per fermare "la bomba climatica a tempo". A livello scientifico, le Nazioni Unite costituirono nel 1988 la "Commissione Intergovernativa sul cambiamento del clima" (IPCC) per studiare l'impatto dell'uomo sul clima, al fine di suggerire al leader mondiali come affrontare il problema. Nel 1995 l'IPCC ribadiva che il cambiamento climatico era in atto e che questo è causato innanzi tutto dalle attività umane, in particolare dall'uso del petrolio, carbone e gas. La temperatura media globale è cresciuta tra 0,3 e 0,6°C negli ultimi 140 anni. In questo lasso di tempo, gli otto anni più caldi sono avvenuti dopo il 1980 ed in assoluto, il 1990 è stato l'anno più caldo. Inoltre, la temperatura del permafrost (lo strato ghiacciato del terreno) in Canada è stata, nel 1992, più calda di 1,5°C rispetto all'inizio degli anni '70, le temperature primaverili sono aumentate e il disgelo è cominciato prima del solito. Gli oceani sono importanti quanto l'atmosfera nel determinare il clima del pianeta, in quanto assorbono sia il calore che l'anidride carbonica. In diversi mari del mondo è stato riscontrato negli ultimi 30 anni un aumento della temperatura, sia di superficie che di profondità, tra i 0,12°C e i 0,7°C con conseguenze gravi per l'intero ecosistema. Anche la nostra salute è minacciata dal cambiamento climatico. È previsto un sensibile aumento di casi di malaria, asma, encefalite, tubercolosi, lebbra e morbillo. L'aumento delle temperature sta creando le migliori condizioni per la diffusione delle zanzare in nuove regioni, tra cui gli USA, l'Australia, il Regno Unito, il Bangladesh, la Cina e l'Egitto. L'aumento della temperatura incide anche sulla diffusione dei parassiti con un effetto negativo sui raccolti, sul bestiame e sulla produzione forestale in alcune aree. La migliore stima dell'IPCC per l'innalzamento del mare è di una media mondiale di 3-10 mm all'anno. Poiché il 70% della popolazione mondiale vive in aree costiere, il potenziale impatto di un massiccio trasferimento delle persone e delle attività economiche risulta evidente, anche per un modesto innalzamento dei mari. Riassumendo, l'ultimo rapporto dell'IPCC afferma che il cambiamento climatico globale è in atto, gli impatti futuri sono enormi e gran parte del danno sarà causato dall'anidride carbonica (CO2) dovuta alla combustione del petrolio, carbone e gas. Gli scienziati hanno sottolineato che i governi devono introdurre drastiche riduzioni delle emissioni di CO2, tali riduzioni sono tecnicamente ed economicamente fattibili. Deve essere promossa l'efficienza energetica e le misure di risparmio, assicurare lo sviluppo e la veloce diffusione delle tecnologie energetiche pulite. In sintesi, dobbiamo usare meno energia e imparare ad essere più efficienti nel suo uso. Abbiamo bisogno di standard più stringenti per gli elettrodomestici e commerciali. Il frigorifero Greenfreezer per uso domestico è un esempio di risparmio attuabile, come l'automobile SmILE di Greenpeace, capace di percorrere 100 Km con 3 litri di carburante. Greenpeace crede che un futuro senza fonti fossili sia essenziale a preservare l'ambiente dal serio rischio del cambiamento climatico. Politiche di sviluppo economico basate su costanti ed ingenti investimenti nel settore delle fonti energetiche non rinnovabili allontaneranno sempre di più l'obiettivo della stabilizzazione del clima a livelli di sicurezza. La riduzione dell'uso dei combustibili fossili avrà delle implicazioni nello sviluppo e nello sviluppo del settore energetico che, ovviamente, deve modificarsi ed intraprendere una nuova strada verso uno sviluppo eco-sostenibile.
Questo tema è stato tradizionalmente affrontato seguendo l’approccio chimico-fisico che considera prioritariamente entità e qualità delle emissioni atmosferiche. Dopo la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro nel 1992, si è iniziato a valutare concretamente i possibili effetti specifici dei cambiamenti climatici sulla distribuzione e la struttura degli ecosistemi. Gli effetti su scala regionale dei cambiamenti climatici risultano tuttora difficilmente prevedibili: i modelli previsionali attualmente rilevano una futura pressione su diversi ecosistemi dovuta alla variazione delle condizioni del clima, in particolare legati agli ambienti costieri (delta, spiagge, ecc.). Anche gli agrosistemi dovrebbero risentire sostanziali variazioni della produttività complessiva. Per valutare gli effetti delle variazioni climatiche sui sistemi naturali è possibile riferirsi all’evoluzione delle condizioni degli ambienti glacializzati e impostare ulteriori attività di monitoraggio legate all’incremento dei tassi di crescita forestale, alla variazione dell’areale di distribuzione di alcune specie selezionate e del loro periodo vegetativo o alla biodiversità ittica legata a fenomeni di tropicalizzazione indotti dalle mutazioni del clima. DEGRADAZIONE DEL SUOLO E FENOMENI DI DESERTIFICAZIONE PER CAUSE CLIMATICHE IN AREA MEDITERRANEA : In Italia non si hanno fin ora fenomeni talmente impressionanti da far percepire in maniera drammatica i processi di desertificazione come avviene ad esempio nel Sahel, nel bacino amazzonico ed in altre aree più direttamente esposte al rischio del cambio climatico. Ad un esame superficiale sembra infatti che un paese come l’Italia sia attualmente del tutto indenne da processi di desertificazione. Un esame più attento permette di rilevare che, almeno nelle regioni mediterranee del nostro paese il processo di aridizzazione o di vera e propria desertificazione, è già iniziato. Le regioni potenzialmente interessate, anche se da fenomeni limitati nello spazio almeno sono Molise, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. La mancanza di fenomeni macroscopici rende il monitoraggio ancora più delicato: di fatto si tratta di rivelare, attraverso il ricorso ad indicatori ambientali, i segni di un cambiamento che è ancora in fase iniziale. Tuttavia l’esperienza relativa a questi fenomeni rivela che all’inizio essi si presentano con variazioni di scarsa entità, ma raggiunto un valore soglia si scatenano con effetti disastrosi. Questo andamento potrebbe verificarsi anche in Italia. Si pone quindi il difficile problema di individuare indicatori che permettano di prevedere aree o situazioni a rischio, in modo da preparare adeguate misure di intervento nel caso in cui la desertificazione dovesse svilupparsi su vasta scala. Nell’Italia mediterranea ci troviamo dunque in una fase di desertificazione latente: le maggiori problematiche sono legate alle caratteristiche climatiche, con prolungati periodi siccitosi, alla presenza di suoli con marcata tendenza all'erosione, all'alta frequenza degli incendi boschivi con distruzione della copertura forestale, alle condizioni di crisi dell'agricoltura tradizionale e al conseguente abbandono del territorio. Si rileva inoltre uno sfruttamento eccessivo delle risorse idriche e una eccessiva concentrazione delle attività economiche nelle aree costiere come risultato dell'urbanizzazione, dell'aumento delle attività industriali, dei turismo e dell'agricoltura intensiva. ALCUNI DATI ALLARMANTI SUL FENOMENO: • il 39% circa della superficie terrestre è affetta da desertificazione • 250 milioni di persone sono direttamente a contatto con la degradazione della terra nelle regioni aride • più di 100 Paesi nel mondo sono interessati dal fenomeno • la perdita di reddito imputabile alla desertificazione è circa di 45 miliardi di dollari (100000 miliardi di lire) ogni anno • il 70% dei terreni aridi utilizzati agricoltura sono già degradati • la desertificazione impoversice le possibilità di produzione alimentare: ogni anno 12 milioni di ettari vengono persi • la desertificazione impoversice la biodiversità LE AREE PIÙ COLPITE: Gran parte delle regioni che rischiano di tramutarsi in terre aride si trovano in prossimità delle cinque principali aree desertiche mondiali: • il Deserto di Sonora nel Messico nord-occidentale e la sua continuazione nella parte sud-occidentale degli Stati Uniti; • il Deserto di Atacama, una sottile striscia costiera in Sud America tra le Ande e l'Oceano Pacifico; • una larga area desertica che dall'Oceano Atlantico corre verso oriente in direzione della Cina e che comprende il Deserto del Sahara, Il Deserto Arabico, i deserti dell'Iran e dell'ex-Unione Sovietica, il Gran Deserto Indiano (Thar) nel Rajasthan ed infine i deserti del Takla-makan e del Gobi, che si trovano rispettivamente in Cina ed in Mongolia; • il Deserto del Kalahari in Sud Africa; • Gran parte dell'Australia.
Altre aree devono essere attentamente controllate: • in Africa, il 66 per cento di tutti i terreni è arido o semi arido; nel Nord America, invece, questa percentuale è del 34 per cento. • l'Ufficio per la Gestione dei Terreni USA considera vulnerabile a fenomeni di desertificazione circa il 40 per cento del territorio continentale degli Stati Uniti. Almeno il 40 per cento dei terreni da pascolo del Texas è già troppo arido per poter essere utilizzato. LA SITUAZIONE IN ITALIA:
Il processo di desertificazione che, pensavamo confinato ad aree lontane e remote dell’Africa, dell’Asia o del Sud America è, purtroppo, un fenomeno, ormai già in atto, che interessa vaste aree del territorio italiano. Il primo indizio si è avuto con la progressiva riduzione delle precipitazioni ed una loro irregolare distribuzione durante le stagioni; si è passati poi ad una diminuzione del manto vegetale sulla superficie dei terreni con conseguente impoverimento e successiva crepatura. E’ la desertificazione: una specie di peste climatica a cui l’uomo dà una mano con lo sfruttamento selvaggio del terreno e con l’inquinamento. Una maledizione biblica che incombe, in misura diversa, su un terzo delle terre emerse del pianeta, cioè su 1,2 miliardi di persone appartenenti a 110 paesi. L’Italia è tra le nazioni della sponda Nord del bacino del Mediterraneo ad essere direttamente minacciate dal fenomeno. Esso riguarda quasi il 30% del nostro territorio, interessando soprattutto le regioni meridionali: Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata e la fascia jonica della Calabria. Nel caso italiano, desertificazione non vuol dire, ovviamente, trasformazione del paesaggio nel deserto del Sahara, ma piuttosto aridità, erosione, salinizzazione, impoverimento di copertura vegetale e di sostanza organica, inquinamento e cattivo uso del suolo. Il cambiamento climatico è il miglior alleato del processo degenerativo del suolo. Con l’aumento della temperatura, infatti , si accentuano sia la siccità nelle regioni meridionali, sia le piogge concentrate, cioè non equamente distribuite nell’arco dell’anno, in quelle settentrionali. La mappa aggiornata delle aree italiane sensibili alla desertificazione, oltre alle regioni più direttamente investite dall’aridità, vede anche ampie zone della Lombardia e dell’Emilia Romagna, colpite dalla perdita di sostanza organica; tratti di coste in Liguria, Toscana, Puglia, e Sicilia Sud-Occidentale, afflitti da infiltrazioni saline dovute all’eccessivo sfruttamento delle sorgenti costiere d’acqua dolce; la Sardegna del Nord impoverita dagli eccessi di pascoli; il nord della Sicilia e la Calabria smantellati dall’erosione. Per cercare di arginare il fenomeno, il Ministero dell’Ambiente ha realizzato la “Carta delle Aree Sensibili alla Desertificazione”, elaborata in scala 1: 250.000 sulla base delle informazioni disponibili in formato digitale per l’intero territorio. Gli indici elaborati sono:
a) INDICE DI ARIDITÀ (clima) b) INDICE PEDOCLIMATICO (suolo) c) COPERTURA DEL CORINNE LAND USE (vegetazione) d) VARIAZIONE DEMOGRAFICA 198171991 (pressione antropica) L’aspetto climatico è stato analizzato attraverso la costruzione della “Carta dell’Indice di Aridità”. Essa prevede che il grado di aridità di un’area venga individuato dal rapporto tra i valori normali trentennali della precipitazione annuale e dell’evapotraspirazione potenziale annuale. L’indice classifica il territorio secondo i seguenti tipi climatici: iper-arido (< 0,05); arido (0,05-0,20); semi-arido (0,20-0,50); secco sub-umido (0,5-0,65); umido (> 0,65). L’aspetto relativo alle caratteristiche del suolo è stato considerato attraverso l’analisi e successiva rielaborazione della “Carta dei Pedoclimi d’Italia”. Tale carta è costruita sulla base dei dati climatici e podologici relativi alla stima dell’umidità del suolo e alla presenza o assenza stagionale di acqua di ritenzione nella sezione di terreno presa in esame. Per la valutazione dell’incidenza degli aspetti relativi alla copertura vegetale ed all’uso del suolo, si è fatto riferimento al progetto “Corinne Land Cover” della Comunità Europea. Esso si basa sul diverso livello di predisposizione delle singole classi di uso del suolo, rispetto al fenomeno della desertificazione. Il livello più alto di predisposizione è stato attribuito alle classi costituite dalle aree con vegetazione rada e dalle aree bruciate; il livello più basso è stato attribuito alle classi relative ai corpi idrici, ai centri abitati ed alle zone industriali. Per quanto concerne l’aspetto relativo alla pressione antropica, questo è stato integrato nell’analisi mediante l’elaborazione della “Carta della Variazione Demografica 1981-1991”, realizzata a scala comunale, in base ai dati dei censimenti ISTAT. Sono state classificate come non predisponenti alla desertificazione variazioni demografiche contenute entro il 20%, come mediamente predisponenti variazioni contenute tra il 20 e il 40% e come fortemente predisponenti variazioni oltre il 40%. Considerando tutti questi elementi, il territorio italiano è stato classificato in aree non sensibili, poco, mediamente e molto sensibili al fenomeno della desertificazione. In particolare, le aree più a rischio sono risultate essere la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. In Lucania le zone più soggette riguardano il corso inferiore del Bradano e del Sinni. Per arginare il fenomeno, l’Ufficio Tutela della Natura della Regione Basilicata ha elaborato quattro schede relative si settori prioritari, ossia protezione del suolo, gestione sostenibile delle risorse agricole, riduzione dell’impatto delle attività produttive e riequilibrio del territorio. A Ginevra tra qualche giorno si terrà la IV Conferenza Europea per la lotta alla desertificazione; l’auspicio è che alle parole, ai proclami e ai clamori seguano i fatti. Una seria programmazione delle iniziative e degli interventi da attuare, potrebbe perlomeno rallentare il fenomeno; veti incrociati e interessi individuali renderebbero ancora più vicina lo spettro di un Mezzogiorno arido e desolato. Le zone italiane più interessate dal processo di desertificazione sono soprattutto le isole, grandi e piccole, e le coste del Sud: la Sicilia e la Sardegna, le isole Pelage (Lampedusa, Linosa e Lampione), Pantelleria, le Egadi, Ustica e parte delle coste di Puglia, Calabria e Basilicata per un totale di 5 regioni, 13 province per 16.100 chilometri quadrati di territorio pari al 5,35% dell' Italia. La regione dove più alto è il rischio di terre ''aride e desolate'' e' la Sicilia con il 36,6% del suo territorio sensibile alla desertificazione e 5 province (Siracusa, Enna, Ragusa, Trapani e Agrigento). Segue la Puglia con il 18,9% del territorio ed anche una zona non costiera (l' interno del Gargano); la Sardegna con il 10,8%.
ESISTONO SOLUZIONI AL PROBLEMA? “Non è facile riuscire a distinguere gli effetti prodotti sull’ambiente dalla cattiva gestione delle risorse e dalle attività antropiche, da quelli derivanti dal naturale processo di trasformazione degli ecosistemi. L’assetto dei deserti e dei territori confinanti è naturalmente soggetto a mutamenti legati all’andamento delle precipitazioni e al perdurare di lunghi periodi di siccità. I provvedimenti adottati per cercare di arginare il fenomeno purtroppo sono spesso inadeguati e fondati su una interpretazione errata delle forme in cui si manifesta il problema. Nell’immaginario collettivo il fenomeno viene spesso associato all’idea di dune sabbiose che avanzano, divorando aree verdi e fertili; in realtà la sterilizzazione dei terreni riguarda anche aree fortemente irrigate e ben lontane dalle regioni desertiche, basti pensare che il 33% della superficie europea ne è minacciata. Alcune iniziative hanno comunque contribuito a frenare il processo come in alcune regioni poste ai margini del Sahara dove sono state impiantate cinture vegetali formate da schiere di alberi particolarmente resistenti. Le soluzioni adottate più di recente sono ben diverse da quelle precedenti, in particolare si tende a valorizzare maggiormente ipotesi di lavoro studiate appositamente per un determinato territorio, dando maggiore rilievo al coinvolgimento delle popolazioni locali, al ripristino di preziose pratiche tradizionali e alla rivalutazione del ruolo delle comunità rurali per evitare il degrado del territorio. Inoltre mentre in passato si tendeva a cercare soluzioni di tipo tecnico, oggi si tende ad affrontare la globalità del problema, dovuto alla continua crescita demografica nonché a fattori di natura politica e socio-economica”. IL RUOLO DELL’ONU: LA CONVENZIONE PER LA LOTTA ALLA DESERTIFICAZIONE La Convenzione delle Nazioni Unite sulla Desertificazione è l’atto conclusivo di una lunga serie di osservazione, studi ed elaborazioni, svolti a livello internazionale, in particolare in ambito O.N.U. a partire dal 1977. In quell’anno, a Nairobi, durante la prima Conferenza delle Nazioni Unite sulla Desertificazione è stato lanciato un vero e proprio allarme planetario su questo processo evidenziato che più di 100 Stati erano già colpiti dalla desertificazione antropica. Tale Conferenza ha approvato il primo Piano d’Azione per Combattere la Desertificazione che purtroppo, non è stato attuato soprattutto per la mancanza di supporto finanziario da parte della comunità internazionale. Nel 1987 il rapporto "Our Common Future" della Commissione mondiale ambiente e sviluppo delle Nazioni Unite segnalava l’urgenza di cambiare il modello di sviluppo attuale non più compatibile con la Biosfera. Nella sua diagnosi il rapporto sottolineava e rilanciava l’allarme di Nairobi mettendo in evidenza la stretta dipendenza esistente tra il processo di desertificazione, il crollo della biodiversità ed i cambiamenti climatici (Our Common Future, 1987; UNEP.; Nardi V., 1995). Nel 1992 la Conferenza sullo Sviluppo e sull’Ambiente tenutosi a Rio de Janeiro ha confermato il quadro allarmante della desertificazione. Dalle stime presentate si evidenzia che 1/4 della superficie terrestre, è minacciato da questa forma di degrado. Durante la Conferenza, tra l’altro, è stato raggiunto l’accordo di fare istituire dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un Comitato intergovernativo di negoziazione col compito di elaborare un documento giuridicamente impegnativo e, grazie ai lavori di questo Comitato, il 17 giugno 1994 è stata adottata la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Lotta contro la Desertificazione che è entrata in vigore il 26/12/1996 (United Nations, 1993). Questo documento, composto da 40 articoli e da 4 allegati regionali, ha come scopo principale quello di adottare per la lotta contro la desertificazione strategie incentrate simultaneamente sul miglioramento della produttività delle terre, sul ripristino sulla conservazione e sulla gestione sostenibile del suolo e si distingue dagli sforzi fatti precedentemente in quanto ha potere esecutivo e comporta impegni nazionali precisi per un’azione concreta specialmente a livello locale, dove la desertificazione deve essere combattuta con maggiore energia. L’ambiente economico-sociale è condizione essenziale per un’efficace lotta contro la desertificazione (Lean G. 1995). L’Italia, per le problematiche considerate da questa Convenzione, rientra tra i Paesi colpiti da questa forma di degrado del territorio, in quanto Sardegna, Sicilia, Puglia, Basilicata e Calabria sono tra le regioni direttamente colpite dalla siccità, mentre l’Italia settentrionale comincia a subire primi devastanti effetti delle piogge acide e dei nubifragi. I dati disponibili sulle condizioni del suolo indicano che circa il 27% del territorio italiano è esposto ad un elevato rischio di erosione, che è uno dei sintomi più significativi della desertificazione, mentre il 69% è esposto ad un rischio lieve-moderato (CCE. 1992). L’Italia rientra altresì tra i paesi donatori della presente Convenzione in quanto paese sviluppato e promotore della Convenzione. Per quanto sopra esposto vale la pena di sottolineare che in caso di fallimento della strategia di lotta contro la desertificazione in Africa il nostro paese sarebbe particolarmente esposto ad un duplice rischio: - sotto il profilo sociale, all’impatto di una emigrazione di massa di "rifugiati ambientali" africani; - sotto il profilo bioelimatico, ad una espansione progressiva dei gravi disordini bioelimatici ed idrogeologici già in atto.
IL RUOLO DELLE “TECNOLOGIE” : Naturalmente, anche la scienza e la tecnologia avranno un loro ruolo chiave. La Convenzione prevede infatti la costituzione di un comitato apposito che avrà il compito di illustrare le possibili soluzioni tecnologiche per combattere la siccità e la desertificazione. L' idea è quella di investire in aree di ricerca fondamentali come la climatologia, l'ecologia, la meteorologia, la botanica, l'analisi del territorio, l'idrologia e la zoologia. È chiaro che la Convenzione promuove la cooperazione internazionale soprattutto in questi campi e che le nuove tecnologie, una volta elaborate, vanno trasferite nelle aree a rischio e adattate alle condizioni locali. Questo processo non deve però oscurare ciò che di buono già esiste a livello locale, come ad esempio l'agricoltura a terrazzo sulle ripide montagne delle Ande o dell'Himalaya e i numerosi sistemi di irrigazione tradizionali. Uno degli obiettivi della Convenzione è appunto quello di tutelare e disseminare le conoscenze e le tecnologie sostenibili, creando anche degli inventari che le raccolgano e le definiscano. I cosiddetti paesi industrializzati sono invece incoraggiati a sostenere gli sforzi dei paesi in via di sviluppo per quanto concerne la creazione di capacità costruttive locali per combattere la desertificazione, soprattutto nell'ambito della scienza e della tecnologia. ED INOLTRE… “QUANTI DOLLARI”…. È difficile stimare quanto viene attualmente speso per combattere il fenomeno della desertificazione. Questa stima sarà uno dei principali obiettivi della Convenzione, oltre a identificare le potenziali fonti di finanziamento per attuare i programmi. Stando ai calcoli dell'UNEP uno sforzo globale della durata di almeno 20 anni per combattere la desertificazione verrà a costare dai 10 ai 22 miliardi di dollari l'anno. Per relativizzare la cifra basta pensare che i paesi direttamente affetti dalla desertificazione perdono ogni anno dal proprio reddito un totale di 42 miliardi di dollari. L'eventuale gestione dei fondi per combattere la desertificazione verrà affidata ad un Meccanismo Globale che avrà il compito di monitorare l'efficacia e l'efficienza dei sistemi di finanziamento. Sembrerebbe dunque che la Convenzione per combattere la desertificazione non sia il solito, ambizioso, programma delle Nazioni Unite dove i paesi ricchi sono invitati a finanziare progetti lontani da casa propria, ma un vero e proprio tentativo di affrontare in maniera globale e coordinata un problema destinato ad affliggere tutti, incluso il nostro paese che spesso, quando si tratta di cooperazione internazionale, preferisce non schierarsi in prima linea. QUAL’È IL RUOLO DELL’ITALIA?: L’ITALIA è seriamente interessata alla “lotta contro la desertificazione” e svolge, all’interno del nuovo progetto globale dell’ONU, un duplice ruolo perché contribuisce, con i suoi fondi ed i suoi finanziamenti, e perché è uno dei tanti Paesi affetto dalla “malattia della Terra”. Sappiamo benissimo che sono diverse le aree del nostro territorio nazionale, circa il 27%, che rischiano di essere minacciate dall’inaridimento dei suoli. L’Italia occupa inoltre una posizione politica particolare perché è presidente del gruppo regionale, il famoso “annesso IV” e raccoglie tutti i Paesi del Mediterraneo settentrionale particolarmente interessati quali la Grecia, la Turchia, la Spagna ed il Portogallo. “Secondo la convenzione, infatti, la regione è colpita da desertificazione per effetto di fattori climatici, crisi dell’agricoltura e conseguente abbandono delle terre, erosione idrica ed eolica, incendi boschivi, sfruttamento non sostenibile delle risorse idriche soprattutto nelle fasce costiere per usi agricoli, industriali, urbani, turistici” In Italia operano diverse associazioni e comitati che cooperano con i rappresentanti dei diversi ministeri, con enti di ricerca ed organizzazioni non governative che attuano diverse campagne specifiche utili soprattutto per la sensibilizzazione delle masse al problema e per sostenere attivamente la gestione sostenibile delle risorse scarse e soprattutto dell’acqua (ad es. “lo sviluppo del Centro per le conoscenze tradizionali a Matera) e quindi la lotta alla siccità ed alla desertificazione. Infatti “Prima della pioggia” è una campagna di raccolta di fondi per avviare, insieme alle popolazioni dei villaggi dei Paesi più poveri “e sulle base delle loro richieste, alcuni microprogetti subito operativi per fornire loro, senza intermediari, utensili agricoli, sementi, pompe ed altri beni essenziali senza che neppure una lira venga distolta per spese amministrative. I progetti rispondono alle esigenze delle comunità locali, in alcuni casi divise da confini nazionali, ma accomunate dalle medesime necessità. “Prima della pioggia” è una campagna promossa dal Comitato nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione con la FAO, il segretariato della Convenzione ONU contro la desertificazione e l'Unione delle Provincie d'Italia. Il Comitato costituisce un coordinamento di enti pubblici, organizzazioni non governative, associazioni di cittadini ed organismi di ricerca da tempo impegnati per nuove soluzioni al problema in Italia e all'estero. In Senegal, l'avvio di una rete di microcredito rurale, in Mali, la costruzione di una piccola rete idrica; in Etiopia, la distribuzione di forni ad energia solare; in Burkina Faso, corsi di formazione: sono alcuni esempi degli investimenti a basso costo che hanno offerto un'alternativa reale a chi pensava ormai di essere costretto ad abbandonare la propria terra non più capace di garantirne la sopravvivenza. Terra afflitta da desertificazione e siccità, che in 110 Paesi limitano progressivamente la disponibilità di acqua, cibo, legname e altre risorse fondamentali per la vita delle popolazioni locali. Migliaia, milioni di persone sono già emigrate in cerca di fortuna, prima nelle città vicine, poi sempre più lontano. Oltre 130 milioni potrebbero essere costrette a farlo nei prossimi anni. Desertificazione e siccità, come abbiamo visto, se non contrastate, contribuiscono all'aggravarsi di povertà, fame, esaurimento delle risorse, innescarsi di tensioni sociali e politiche che fanno sentire i propri effetti a distanza nel tempo e nello spazio.
Queste “campagne” specifiche tendono pertanto a: organizzare e promuovere iniziative ed eventi per raccogliere fondi stimolare i mass media con articoli, dibattiti, servizi coinvolgere artisti, intellettuali per manifestazioni, concerti, eventi coinvolgere associazioni culturali e di volontariato invitare istituzioni, enti, istituti, scuole a programmare idonee iniziative coinvolgere le imprese, i consorzi, le aziende municipalizzate
IL RUOLO DELL’EUROPA:
“MEDALUS”: La ricerca in Europa Finanziato già da otto anni dall'UE, si occupa della determinazione degli indicatori di riferimento nei paesi mediterranei, ma anche sulle possibili azioni di mitigazione. Questo progetto internazionale coinvolge oltre 200 ricercatori e numerosissime istituzioni. Per l'Italia concorrono: il Nucleo di Ricerca sulla Desertificazione di Sassari; il Centro Studi di Matera e l'Università di Cagliari. Per l'Unione Europea “Medalus” rappresenta il più grande sforzo finanziario, a livello scientifico in materia ambientale: circa il 50% dell'investimento è, infatti, destinato, allo studio sulla desertificazione.
CONCLUSIONI PERSONALI alla fine del corso tra SPERANZE, ASPETTATIVE e……….
Quando si parla di grandi problemi ambientali, dall’aggravarsi dell’effetto serra, del buco dell’ozono alla desertificazione ecc.., una nostra facile tentazione, intrisa di un umano egoismo, può essere quella di ritenere che il problema non ci riguardi o che non dipenda da noi….. Spesso il nostro ragionamento potrebbe essere il seguente: “Gli scienziati parlano di danni che si produrranno forse fra cento anni, quando noi non saremo più su questa terra. Se la sbrighino perciò coloro che ci seguiranno, per adesso noi pensiamo a vivere il meglio possibile, sfruttando tutto ciò che possiamo ricavare dalla natura”. Tranquillamente però, dopo attente analisi personali, ci accorgiamo con sia del tutto così e che questo assurdo discorso, privo di una vera dimensione culturale e di una coscienza civile critica e fatta di valori veri, non quadra sotto vari aspetti. Innanzitutto, perché non è detto che tanti dei guasti che stiamo provocando nell’ambiente producano i loro effetti così lontano nel tempo; anzi, proprio il degrado ambientale, potrebbe accelerare la morte di molti. Il secondo aspetto da non sottovalutare è poi che chi ci seguirà su questo pianeta non sono per noi degli estranei, ma i nostri figli ed i nostri nipoti. In terzo luogo, appare errata la premessa di fondo: siamo convinti che, dopo aver prodotto tanti danni all’ambiente, oggi viviamo tanto meglio di ieri? Se proviamo a parlare con chi è un po’ più in là negli anni, proviamo a vedere le immagini di com’erano le nostre città e le nostre campagne appena cinquant’anni fa, ci accorgeremo probabilmente che, tutto sommato, in molti casi il nostro benessere è solo apparente. Acquisita tale consapevolezza, bisognerà darsi da fare. In primo luogo occorrerà superare gli egoismi nazionali perché il problema ambientale, come si è visto, ha una portata planetaria. Minimizzare l’impatto ambientale della propria economia interna può essere un primo passo ma non basta. C’è da superare innanzitutto uno scoglio economico di tipo nazionale. Senza un aiuto vero allo sviluppo del Terzo Mondo è dal tutto impensabile che Pesi impegnati quotidianamente a combattere epidemie e carestie possano preoccuparsi dell’istruzione delle proprie popolazioni e del conseguente controllo demografico o di produrre senza arrecare danno all’ambiente. Oltre vent’anni or sono i maggiori Paesi industrializzati aderenti all’Ocse si impegnarono a versare lo 0,7% del proprio prodotto nazionale lordo in aiuti allo sviluppo ma…i più non lo hanno mai veramente fatto. Oggi è molto importante che ogni cittadino vigili sulle scelte politiche ambientaliste dei governi che andrà ad eleggere con il suo voto. Occorrerà pretendere che per ogni scelta produttiva che si andrà a fare, si tratti di costruire un’autostrada o una ferrovia o di lanciare un nuovo prodotto industriale, sia valutato l’impatto ambientale che essa può produrre. E ancora, bisognerà battersi perché si realizzi su tutto il territorio nazionale una raccolta differenziata efficiente ed efficace di tutti i rifiuti, isolando e smaltendo in apposite discariche quelli più pericolosi e riciclando quelli per i quali sia possibile. Dei nuovi ritrovati tecnologici non possono continuare ad interessarci solo i benefici. Alla periferia di molte città italiane vengono ad esempio, segnalati i figli indesiderati della precoce obsolescenza delle nuove tecnologie: “i cimiteri dei computer”, enormi aree dove vengono sversati a cielo aperto processori, tastiere e video non più al passo coi tempi. Si tratta di materiali non solo non biodegradabili, ma anche altamente inquinanti; metalli quali cobalto, piombo e resine tossiche, che vengono rilasciati nell’ambiente senza alcuna precauzione. I controlli sono del tutto inadeguati e l’attenzione degli operatori della giustizia verso un tale tipo di reato è quasi sempre minima. Penso sia giusto battersi perché siano veramente effettivi tali severi controlli contro chi inquina e perché tali condotte siano sanzionate come meritano. Le leggi ci sono ed è solo ora di applicarle! Un’idea, proposta da più parti, potrebbe essere quella di accentuare la pressione fiscale su quelle attività e verso quelle produzioni ritenute particolarmente inquinanti e attenuarla nei confronti di chi utilizza energia pulita. Si tratterebbe in altri termini di tradurre in pratica il concetto secondo cui “chi inquina paga”. È molto importante capire che la salvaguardia dell’ambiente dipende senza dubbio dalle scelte dei governi ma anche e soprattutto da tanti piccoli nostri gesti quotidiani. Potremmo imporci da soli, ad esempio, senza attendere questa o quella ordinanza restrittiva delle autorità amministrative, di usare meno l’auto. Il volante, ormai ci ha preso la mano. In auto andiamo non solo al lavoro, ma anche a fare la spesa o a comprare il giornale. E soprattutto, se veramente ci teniamo a rispettare l’ambiente, dovremmo dedicare maggiore cura alla manutenzione della nostra autovettura. Troppo spesso sulle nostre strade vediamo auto o moto dalle cui marmitte fuoriesce fumo nero e maleodorante o che perdono olio. Benzina, gasolio e altri derivati del petrolio bruciati nelle fabbriche, dalle auto e negli impianti di riscaldamento sono i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico. Attraverso il processo di combustione si diffondono nell’aria ossido di carbonio, ossido di zolfo e azoto, insieme ad altre sostanze tossiche. Il risultato immediatamente percepibile è, nel breve periodo, l’aumento delle affezioni alle vie respiratorie, bronchite cronica e asma. Alla lunga, però, si registrano anche effetti cancerogeni. Un grave rischio, soprattutto per i bambini, viene dal piombo che è contenuto nella benzina, in alcune vernici e inchiostri, nelle batterie delle auto e che può scrostarsi dalle vecchie tubature dell’acqua. Secondo dati forniti dall’Agenzia americana per l’ambiente, nei bambini con più alta concentrazione di piombo nel sangue si sono fatti registrare seri ritardi nello sviluppo intellettivo. Dobbiamo essere disposti a rinunciare a un’ora di riscaldamento o a qualche grado centigrado in più e adoperarci perché venga utilizzato per il nostro impianto se non l’energia solare, ancora poco diffusa, quanto meno il metano, che tra i combustibili è il meno inquinante. E ancora, l’elenco dei possibili rimedi potrebbe continuare con l’utilizzo di carta riciclata, di contenitori riutilizzabili, del vetro al posto della plastica ecc… Occorre, più in generale, prestare una maggiore attenzione sulla fine che fanno i nostri rifiuti. Nel sacchetto dell’immondizia non può finire di tutto. Il vetro e l’alluminio vanno gettati negli appositi contenitori, così come i medicinali scaduti. E se i contenitori non ci sono, bisogna pretendere da chi amministra i nostri comuni che li predispongano al più presto. Non compriamo, ad esempio, anche se costano meno, detersivi lacche e spray di ogni tipo, ma privilegiamo quelli che contengono sostanze a basso valore inquinante. E, soprattutto, non abbiamo paura nel denunciare coloro che arrecano danni all’ambiente, non facciamo finta di non vedere! È il nostro dovere-diritto da cittadino con la propria coscienza civile e sociale! E soprattutto sono fatti nostri che riguardano la nostra vita, il nostro ambiente, la nostra salute. L’impegno per l’ambiente non dobbiamo pretenderlo solo dagli altri, ma deve essere presente soprattutto nel comportamento di ognuno di noi: basta non rimanere alla finestra a guardare!
Autore Guerino Nisticó
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