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Titolo Rubrica : UNO SGUARDO APPROFONDITO SU FOSCOLO


Pubblicata in data : 10/5/2005



Tutta l’opera del Foscolo uomo e scrittore ha una sua coerenza ideologica e politica non comune ai suoi tempi e dimostra un’evoluzione del suo c.d. “soggettivismo esasperato”, che va dal “tono oracolante e pessimistico dell’Ortis “ fino all’ironia di “Didimo Chierico”, per giungere alla “contemplazione neoclassica” delle Grazie.

Egli stesso tenne sempre viva la coscienza che la sua stessa personalità di uomo e scrittore aveva avuto svolgimento proprio a partire dall’Ortis, e a questo personaggio faceva continuamente riferimento per confrontare se stesso, riconoscendosi in ogni momento della sua agitata esistenza. “La forte punte del suo soggettivismo vizia di oratoria oracolante e profetizzante, alla maniera alfieriana, tutto il romanzo dell’Ortis, tanto che in esso non esistono personaggi oltre il protagonista, o se esistono, altro non sono che idoli del cruccio e della inconsolabile malinconia di Jacopo”.

Infatti, tale è la sorte dell’Ortis, dei Sonetti, dell’Aiace, nel cui personaggio, “ingiustamente misconosciuto nei suoi meriti e perseguitato”, il Foscolo riconosceva se stesso, ed in Agamennone il tiranno Napoleone, inteso qui come antagonista supremo. E tale è anche la sorte della Ricciarda, l’amante foscoliana che eroicamente accetta la morte; e tale ancora è la sorte di Didimo Chierico, ultima incarnazione del Foscolo uomo- poeta. Nel 1813 Foscolo completa la traduzione dall’inglese e pubblica il “Viaggio sentimentale di Yorick” di Laurence Sterne, cui permette uno scritto, “Notizia intorno a Didimo Chierico”, che rivela una significativa evoluzione del suo soggettivismo. La prosa di questo scritto è tutta “venata di un amaro umorismo ironico” ed è quindi molto lontana dalle “forme accese ed oratorie” dell’Ortis.

“Didimo Chierico rappresenta la riflessione ironica sulle proprie violente ed accese passioni; la passione non è negata, ma è ritirata più in fondo nell’animo, venata dalle rughe dell’ironia, un’ironia delle cose che è poi una forma di alta ironia su se stesso. È l’ironia che è lo stesso limite del buon gusto; sicchè possiamo dire che Didimo è lo stesso Jacopo, che si ravvia gli scompigliati capelli rossi e si presenta al mondo vestito da prete. Didimo Chierico è la nuova incarnazione di Ugo Foscolo, dopo che egli si è spogliato degli abiti scompigliati di Jacopo Ortis”.

Nelle vesti di Chierico, notiamo come il Foscolo alludesse alla sua vocazione sacerdotale, che per lui era vocazione sacrale di poeta vate della patria. Infatti già nella “Prefazione” del Didimo possiamo leggere: << Era opinione del reverendo Lorenzo Sterne parroco di Inghilterra che un sorriso possa aggiungere un filo alla trama brevissima della vita >>.

Didimo rappresenta pertanto nello svolgimento dell’opera foscoliana la nascita di questo “sorriso” speciale e di questa “arguzia interna”. Il Foscolo dice che il protagonista del “Viaggio sentimentale”, un vero e proprio buffone tragico, “volle con parecchi scritti, e singolarmente in questo libricciuolo, insegnare a conoscere gli altri in noi stessi e a sospirare a un tempo e a sorridere meno orgogliosamente su le debolezze del prossimo”. Pertanto, se l’Ortis è la prova più significativa dell’esperienza del suo noviziato in chiave alfieriana e preromantica, Didimo rappresenta il superamento conclusivo del suo pessimismo, rivelando il dono del sorriso, in netta contrapposizione al tono elegiaco e disperato dell’Ortis.

Così “l’esperienza sterniana” portò il Foscolo a scrivere una serie di opere tra il 1805 ed il 1817 – gli “Atti dell’Accademia dei Pitagorici”, il “Liber singularis Hypercalypseos Didimo clerici prophetae minimi”, il “Saggio del gazzettino del Belmondo” – che rappresentano un momento particolarmente significativo dell’attività letteraria del Foscolo, in quanto, dopo il superamento del suo inquieto e poetico romanticismo giovanile che si era concluso con i “Sepolcri”, concorrono a definire meglio la stagione delle “Grazie” la cui idea, nata appunto nel 1805, si può considerare in gran parte realizzata nel 1813.

La superiore armonia, la suprema giustizia non si concretizzano nel Foscolo,come già abbiamo visto sopra, in una “concezione trascendente o religiosa”, ma in una vera e propria “concezione estetica della vita”, secondo cui la poesia è la “suprema illusione”.

Infatti la poesia << crea per noi oggetti e mondi diversi. E se imitasse fedelissimamente le cose esistenti e il mondo qual è, cesserebbe d’essere poesia, perché ci porrebbe davanti agli occhi la fredda, trista, monotona realtà >>. Pertanto la poesia si differenzia dalla storia, in quanto quest’ultima descrive la vita cosi com’è, mentre la poesia descrive il mondo come dovrebbe essere, e cioè il mondo ideale. L’arte è l’unione di reale ed ideale. Infatti, senza il vero l’arte è stranamente fantastica o artificiosamente raffinata, ma senza l’ideale l’arte uscirà sempre volgare.

Così “l’ideale è creato dal genio e questi guidato dal senso dell’armonia”. Lui stesso scriveva : << esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela di ritrovare come necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza; e quanto più trova siffatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano, ad esaltarsi e purificarsi; e quindi la sua ragione si perfeziona >>. Il Nostro sostiene ancora, sottolineando il primato della poesia tra tutte le arti, che la Poesia è l’arte più completa perché << unisce l’armonia delle note musicali per mezzo della melodia, delle parole e della misura del verso; e l’armonia delle forme de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni >>. Qui la critica ha notato la “derivazione del pensiero foscoliano da quello neoclassico del Winckelmann, il quale aveva posto alla base delle arti plastiche l’armonia”, che per il Nostro è, come visto, l’espressione di ogni arte.

L’armonia è, dunque, il supremo approdo del poeta e del letterato Foscolo, la sua unica e costante religioni della vita, quella per cui egli potè continuare a vivere, lottare e sperare. La poesia è come << un rifugio alla nostra disperazione >>, un mondo ideale che si contrappone alle ansie dolorose della vita. Il Foscolo, più di ogni latro poeta del tempo, “sente l’opposizione tra poesia e realtà, tra il mondo della fantasia e il mondo della realtà quotidiana…ed ogni opera sua pare sorgere non ispirata dalle circostanze in cui vive il poeta, ma in contrasto con esse. Così la sua prima vera poesia, esaltazione della bellezza femminile, è composta fra i disagi dell’assedio di Genova; l’ode all’Arese vuole sollevarsi al di sopra della passione tragica per l’amica, che vi appare del tutto trasfigurata; l’epopea omerica diventa l’ispiratrice prima dei Sepolcri; alle Grazie il poeta attende durante gli anni fortunosi che annunciano e segnano il crollo della potenza napoleonica”.

Per questo bisogno di serenità la poesia del Foscolo è assai spesso “mitografica” , in quanto vuole essere esaltazione della bellezza e dell’armonia, in cui si rasserena la vita. Fantasia e mito sono i mezzi di questo grande “esteta neoclassico”, in cui l’arte non è più imitazione, ma canto di un paradiso ideale, fuori dalla vita. In questo senso le “Grazie”, oltre ad essere un monumento poetico, sono anche un documento della poetica foscoliana e neoclassica.

Ma, diversamente dei neoclassici, la poetica foscoliana non ama il decorativo ed il musicale; predilige invece il mito proprio perché in esso si fondono la bellezza e l’anima della poesia, e si esprime il primo e più naturale linguaggio poetico. Foscolo, infatti, non dà alla sua mitologia un valore di “espediente retorico”, ma un grande significato di “allegoria letteraria” in cui si possano esaltare verità morali e lati pensieri di umanità. In un certo senso, nel “mito allegoria di verità e di religiosità umana è adombrato il senso aristotelico della catarsi, cioè della liberazione dal dolore” ed infatti, per lui, l’arte ha “l’ufficio di consolare il dolore”. Per questo la poetica foscoliana “non cade mai nel pericolo dell’estetismo dei neoclassici, in quanto non si chiude mai nel culto della forma elegante ed ornata di orpelli letterari, ( e Foscolo fu aspro critico dei pedanti, dei petrarchisti e dei letterati puri ), anzi alimenta questa idillica litografia, questa ideale armonia, trasportando in quel sopramondo tutta la realtà delle sue esperienze di uomo, il suo spirito guerriero, le sue passioni,le molteplici dissonanze delle cose,; trasformando il mito in un simbolo perenne e pacifico dell’irrequieta e torbida vicenda degli umani affetti”.

Il mito foscoliano è tutto penetrato dalla spiritualità irrequieta e dal pensiero del Foscolo, in ogni suo momento ed in ogni suo aspetto, e diventa il tono stesso “epico – lirico della sua arte”. Perciò la poetica del Foscolo, a parte le “apparenti connotazioni contemplative ed estetizzanti”, accoglie profonde istanze politiche e civili, che saranno proprie dei romantici. Pertanto il Poeta non è un soltanto artista della parola ma anche e soprattutto del pensiero. Così, allo stesso modo, la letteratura diventa “fatto sociale” come la religione, la guerra, la tirannide e la schiavitù. “Il poeta raccoglie”, quindi, “in sé tutte le voci del suo tempo”, diventando vero grande propulsore di idealità, la forza vivente di un popolo, che trasmette alla storia la memoria delle cose. E non può e non deve cantare le plebi, bensì la classe media dei cittadini, quella che veramente è la sostanza delle città, in modo da essere moderatore tra governo e quella classe chiamata in causa. Pertanto, come “sacerdote di alte verità civili e luminare della vita, deve mantenere pura la sua penna ed incorrotto il suo animo, vergine la sua musa”. Basti qui ricordare l’Omero, l’Alfieri e il Parini dei “Sepolcri”- assunti sempre a simboli di questo sacerdozio incontaminato della poesia, intesa come “civilizzatrice ed immortalatrice” – e lo stesso Foscolo che si augura di poter dare, dopo la sua morte, l’esempio di << liberal carme >>.

Foscolo collocava l scrittore su di un piano morale e sacro,per la missione civile che deve compiere e per l’esempio che deve dare: ecco perchè l’esilio fu poi la logica conseguenza della sua ideologia.
Ciò è ancora confermato quando esalta quest’ufficio nobile del poeta educatore della nazione: <>.

Per questo suo alto ufficio civile, oltre alla fantasia ed al genio, il poeta deve avere grande eloquenza, che non deve essere una prerogativa soltanto del genere oratorio ma di ogni genere letterario, perché si confonde con quello stesso della poesia, essendo suo scopo educare e civilizzare. Ecco perché tutta la vita e lo studio del poeta furono un esercizio continuo di poesia e di diffusione della storia e della letteratura: non a caso a Pavia dichiarava che non era andato per “insegnare precetti di retorica, ma letteratura civile, critica letteraria, che facessero intendere ai giovani il valore morale delle lettere”.




Autore Guerino Nisticó

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