Pubblicata in data : 10/5/2005
La formazione illuminista è alla base del pensiero di Manzoni e la si riconosce nel metodo razionale e analitico attraverso cui affronta ogni questione , nella diffidenza verso gli atteggiamenti passionali, nella critica dei pregiudizi e delle superstizioni, nello spirito di tolleranza, nel suo liberalismo moderato ma coerente.
L’illuminismo di Manzoni è però segnato da una profonda delusione storica, comune ai maggiori intellettuali italiani del tempo, tra cui Foscolo e Leopardi. Il Terrore, l’assolutismo napoleonico, poi la Restaurazione, il fallimento dei tentativi liberali, sono per lui segni dell’incapacità dell’uomo di costruirsi un futuro migliore: la violenza, le passioni, i pregiudizi sono più forti della ragione. Così il “razionalismo manzoniano” funziona allora più che altro in modo negativo, come pura e vera critica delle follie umane individuali e collettive, senza una fiducia positiva nella sostanziale possibilità di superarle. Questo tipo di pessimismo, tipicamente manzoniano, colora tutto il cristianesimo del Nostro.
È il cristianesimo di un uomo che per un certo periodo ha aderito “all’irreligiosità illuministica”, e rappresenta quindi una scelta consapevole e non il risultato dell’ambiente e dell’educazione. Questa scelta “è immune dalle nostalgie medievali e reazionarie di tanti contemporanei, trova anzi nel Vangelo un fondamento agli ideali di matrice illuminista di libertà, eguaglianza, fraternità”.
Ma per Manzoni non è assolutamente possibile adagiarsi nella fede di una Provvidenza che governa le sorti umane verso il bene. Il fallimento degli sforzi umani, il peccato ed il dolore sono problemi che assillano sempre il suo pensiero come una continua sfida alla fede in un Dio giusto e misericordioso. Dio gli appare lontano dall’uomo, interviene nella vita degli individui e dei popoli che non si possono spiegare. L’umanità è segnata dal peccato originale e risulta incapace di fare il bene con le proprie forze: solo la misericordia gratuita di Dio, infatti, può salvare alcune anime elette. In questa “concezione, implicita nelle opere maggiori anche se non esposta teoricamente, alcuni hanno riconosciuto le tracce del giansenismo dei suoi padri spirituali, poiché Manzoni professò in ogni modo sempre una totale fedeltà agli insegnamenti della Chiesa Cattolica”.
Un altro cardine della cultura manzoniana è, come sappiamo benissimo, l’interesse per la storia, elemento caratteristico per la sua epoca letteraria. Come gli “ideologi francesi”, Manzoni è interessato alla “storia civile” delle istituzioni, delle idee e dei modi di vita, alla storia dei popoli e degli oppressi e non a quella dei regnanti e delle loro guerre, ed in questo campo di studio è un “autore di ricerche penetranti” ed importanti. Il suo “senso storico” non è, però per niente “storicista”: non tende in altre parole a giustificare i fatti del passato alla luce delle circostanze da cui sono sorti e delle conseguenze che hanno prodotto, ma li giudica esclusivamente sulla base dei “principi immutabili della morale cristiana”.
Come sappiamo, sono due i “saggi-storici” che illustrano benissimo questi atteggiamenti . “La storia della colonna infame, pubblicata in appendice all’edizione definitiva dei “Promessi sposi” e ricavata da un episodio della prima stesura e poi tolto dal romanzo, analizza un processo contro presunti untori svoltosi a Milano durante la pestilenza del Seicento, basato su confessioni estorte con la tortura e finito col rogo degli imputati. L’intento era qui dimostrare che le barbarie del processo non furono il risultato automatico dei pregiudizi dell’epoca: se i giudici si fossero ispirati alle migliori dottrine giuridiche del loro tempo, avrebbero riconosciuto l’innocenza degli imputati. Dunque, la storia non giustifica le colpe e non assolve dalle responsabilità individuali.
Un’analoga mentalità, giuridica più che storica, ispira il “saggio comparativo” “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”, scritto negli ultimi anni di vita e rimasto incompiuto, in cui il Nostro intendeva dimostrare che quella francese era stata inficiata fin dall’inizio d’illegittimità, origini dei tanti mali seguiti, al contrario della “rivoluzione italiana” del 1859, che aveva ottenuto il consenso popolare nelle dovute forme.
Lo stesso rigoroso moralismo è alla base delle idee di Manzoni sulla letteratura, che si ricavano soprattutto da due scritti: la “Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unitè de lieu et de temps dans la tragedie” e la “Lettera al marchese Cesare D’Azeglio sul romanticismo”, scritta nel 1823 ma pubblicata solo nel 1846. La sua interpretazione del romanticismo è estranea ad ogni tendenza irrazionalistica o sentimentale: il suo è un romanticismo milanese, e a Milano la parola romanticismo ha designato un << complesso d’idee più ragionevole, più ordinato, più generale che in nessun altro luogo >>. Così scrive Manzoni nella sua lettera a D’Azeglio, dove traccia una sintesi vera e propria del “sistema” romantico distinguendo una parte negativa, in altre parole molto critica, ed una positiva. La prima consiste “nel rifiuto della mitologia, dell’imitazione servile dei classici e delle regole imposte dalla tradizione retorica”. È notevole che Manzoni rifiuta la mitologia per ragioni non solo letterarie, ma morali e religiose: la mitologia è idolatria perché <>.
La parte positiva del romanticismo si riconduce al principio che << la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo >>. Da qui nasce la grande idea della c.d. “poetica del vero”, tipicamente manzoniana, ed il “criterio del vero” in sé risponde ad un’esigenza di serietà di tutta la letteratura: << il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo >>. I temi delle opere devono essere quindi attinti a ciò che è realmente accaduto nella storia. A questo punto nasce una bella domanda: come si distingue il compito del poeta da quello dello storico? Lo storico si attiene ai dati oggettivi, agli avvenimenti esterni, mentre alla poesia ed al poeta spettano di approfondire le loro ragioni intime, i movimenti interiori dei protagonisti. Tutto ciò rappresenta il c.d. “spazio della creazione artistica”. Quest’ultima non consiste, però in un’invenzione gratuita che rappresenti sentimenti artificiosi e convenzionali (nb: il “romanzesco che Manzoni aborrisce”), ma in una ricostruzione, molto aiutata dalla fantasia, di ciò che realmente accade nel cuore umano. Dunque, oggetti importanti della poesia sono i sentimenti, le passioni, ma il suo scopo non è di suscitarli nel lettore, ma al contrario, di spingerlo a distaccarsene. È questo pertanto “l’utile” a cui deve mirare la poesia, << vivificando e sviluppando l’ideale di giustizia e di bontà che ogni anima porta in sé >>. Solo su questa base si capisce come Manzoni potesse riconoscere << una tendenza cristiana >> nel romanticismo come lui stesso la intendeva.
Nati dalla svolta spirituale della “conversione”, gli “Inni sacri” rappresentano anche il “primo tentativo di creare una forma poetica nuova, adatta alle idee sui compiti della letteratura che Manzoni veniva elaborando”. Nel progetto originario dovevano essere dodici, dedicati alle principali festività dell’anno liturgico cattolico; il poeta ne scrisse solo cinque : “La Risurrezione”, “Il nome di Maria”, “Il Natale”, “La passione”, pubblicati nel 1815, e “La Pentecoste”, la cui composizione durò fino al 1822.
I temi degli “Inni” sono la rievocazione dell’episodio della storia sacra celebrata in ciascun festività, il suo significato per i fedeli, i riti propri del giorno, la preghiera collettiva. Si tratta quindi di una poesia corale e non soggettiva: Manzoni è un poeta che non scrive “Io” ma “Noi”. La sua è una poesia celebrativa e ricca d’impeto oratorio ma sull’aspetto esteriore della celebrazione prevale l’appello al rinnovamento interiore dei fedeli uniti in Cristo. Questo intento corale si riflette nelle scelte metriche: si tratta, infatti, di versi da ritmo fortemente scandito – settenari, ottonari, endecasillabi – riuniti in strofe ben strutturate ( nb: un tipo di metri che resterà un modello per tantissima poesia romantica!). Lo stesso “bisogno di evidenza espressiva” si manifesta poi nella disposizione dei temi, chiaramente articolati e scanditi da parallelismi, anafore, richiami da strofa a strofa. In questa struttura particolare “quasi geometrica” il discorso si sviluppa in forme dense, che mirano al massimo d’efficacia col minimo di parole. Tutto questo viene unito, dal Nostro, “dall’arditezza” di alcune immagini e similitudini ed offre una visione particolare degli “Inni sacri” con delle caratteristiche che sanno di novità e che fece storcere il naso a tanti lettori tradizionalisti dell’epoca. Innovative qui non risultano invece le scelte linguistiche dato che il lessico è aulico e molto ricco e fitto di arcaismi e di latinismi con una sintassi spesso molto difficile.
Hanno caratteristiche formali simili le due “odi civili” scritte nel 1821, “Marzo 1821”, fu composta nel momento in cui sembrava che Carlo Alberto stesse per far guerra all’Austria per liberare Milano. Non potè essere pubblicata che nel 1848, quando il fatto auspicato si realizzò e le idee patriottiche ebbero per qualche tempo libera circolazione. La poesia nasce da un’aspettativa di guerra e si conclude con un vibrante appello agli italiani perché si uniscano alla lotta. La “scelta metrica del martellante, marziale endecasillabo” è molto coerente con questo intento e con il suo principio. Ma l’ispirazione manzoniana è lontana dal c.d. “militarismo nazionalista”: nel rivolgersi agli Austriaci oppressori il poeta si appella ai diritti di tutti i popoli in nome di Dio, chiamato a garante della giustizia internazionale.
L’ode “Il Cinque Maggio” fu scritta quando il poeta ebbe la notizia che Napoleone era morto nella solitudine di S. Elena, confortato dalla fede ritrovata. In “agili strofe” di settenari, il Nostro, rievoca la tumultuosa esperienza del conquistatore, poi lo strazio del confino finale nell’isola sperduta, per celebrare infine il trionfo della fede che ha potuto vincere e salvare anche uno spirito così ambizioso e geniale. Diversamente che in Marzo 1821, qui Dio non è invocato a sostegno dell’azione giusta, ma si rivela ad uno sconfitto nel momento in cui comprende la vanità d’ogni azione. “Tocca qui il culmine, la tecnica della lirica manzoniana fatta di rapidi scorci, contrasti grandiosi, passaggi veloci da un’idea all’altra, mentre i parallelismi, le antitesi, le anafore danno all’espressione un ritmo incalzante”.
SCENDENDO NEL PARTICOLARE:
Nate in un periodo d’importanti avvenimenti politici e sociali, le Odi Civili rappresentano la sintesi del pensiero manzoniano, in pratica gli ideali di democrazia, libertà e giustizia ereditati, come già visto sopra, dalla corrente illuminista e mantenuti caparbiamente per tutta la vita. Dal movimento romantico il Manzoni acquisì soprattutto il patriottismo che caratterizzò particolarmente entrambe le sue opere, qui prese in considerazione, anche se fu sempre legato ad una religiosità molto forte che contribuì a rafforzare le sue concezioni di vita.
Ciò ci spiega anche i motivi che portarono il Nostro a discostarsi completamente dalle credenze negative ottocentesche degli altri letterati dell’epoca. La sua fede, infatti, aderente ai contenuti positivi che il Vangelo presenta, non transige assolutamente nel rispettarle. Il suo “modus vivendi”, dunque, non poteva che gettare le basi di un nuovo concetto, di cui egli ne è il rappresentante assoluto : la “provvida sventura”. Pur sembrando, in apparenza, la non via d’uscita che condanna l’uomo alla disperazione eterna, è in realtà l’unico mezzo di salvezza per coloro che desiderino essere in grazia di Dio e meritare il suo perdono.
Nelle Odi ne ricorrono esempi eclatanti, in particolar modo ne “Il Cinque Maggio”. Mentre in “Marzo 1821” viene messo maggiormente in rilievo l’amor di patria, esplicitato dalla dedica al Koemer, il patriota tedesco morto a Lipsia combattendo contro Napoleone, “Il Cinque Maggio” può considerarsi, invece, l’opera più geniale e completa di Manzoni. In primo luogo dal punto di vista dei contenuti: vari e numerosi. Esempi: Il “necrologio” introduttivo, i c.d. flashback che contribuiscono a rievocare la grandezza delle imprese, fino ad un’indagine psicologica e ad una possibile interpretazione del pensiero di Bonaparte, quindi ancora l’applicazione del vero storico e poetico comune a tutti gli scrittori romantici. In secondo luogo, la fama procuratagli: il clamore suscitato dall’avvenimento rese il componimento noto e diffusissimo, anche grazie al Goethe che la tradusse per condividerne la bellezza dei versi con i letterati tedeschi. In terzo luogo, la conferma della sua genialità: le fonti storiche affermano che l’autore, turbato dalla notizia, la compose in meno di tre giorni; la vastità e la complessità. Così l’impiego di termini e di strutture poetiche alquanto ricercate inducono a riflettere sulle effettive capacità poetiche del Manzoni, che, a quanto pare, sono davvero incommensurabili.
Per tutti i motivi enunciati “Marzo 1821” non può certo considerarsi alla stessa stregua de “Il Cinque Maggio”, che certamente la più famosa ma che non è da meno, come già visto, per quanto riguarda la scelta lessicale, la metrica e la semantica. È notevole come anche in questo contesto la figura di Napoleone abbia un ruolo di spessore, che, da un certo punto di vista, può essere riconosciuto come il vero protagonista delle “Odi”, sotto due aspetti nettamente contrapposti: l’oppresso esule e l’oppressore imperatore. Il rapporto “oppresso-oppressore” è un altro concetto che ricorre spesso nelle opere manzoniane: dalle Odi alle Tragedie, fino al romanzo più popolare “i Promessi Sposi”. L’oppresso è colui che è costretto, spesso con la violenza, a subire la volontà altrui, sia esso un semplice signorotto ( Don Rodrigo ) o l’imperatore dei francesi in persona (Napoleone) . Questi è sempre destinato a riscattarsi ed a vincere l’oppressore, che finisce per pagare con la vita ed essere condannato alla dannazione, salvo che non intervenga la “Provvida sventura” per salvarlo. L’oppresso confida in Dio e nella fede ed è questa la sua forza.
“Marzo 1821”, per quest’aspetto in particolare, assume un valore educativo: è uno stimolo per capire l’importanza della libertà e trovare il coraggio di lottare per affermarla ad ogni costo. Così il popolo deve essere parte attiva, perché esso costituisce veramente la Nazione, non deve sperare passivamente nell’intervento altrui, proprio perché affidarsi ad esterni è segno di poca intraprendenza e quindi d’incapacità nell’autogestirsi, precludendo così un’eventuale futura indipendenza nazionale. Per questo è vitale, innanzi tutto, acquisire una nuova mentalità sentendosi tutti cittadini di un solo paese, e solo dopo cementare quest’unione senza distinzioni, da nord a sud. Forse, in fondo in fondo, l’intento del Manzoni consisteva proprio nell’aiutare sia i suoi concittadini, sia l’intera Nazione, anche se lo spunto che lo spinse alla composizione fu la delusione personale procuratagli dal Bonaparte.
Questi, venuto in Italia come alleato, se ne impadronì con prepotenza per annetterla al suo Impero; non è allora casuale la scelta del Koemer come simbolo dell’indipendenza. Nonostante tutto, l’ode è più che mai piena d’ottimismo, qui espresso come concetto d’unità, mentalità piuttosto all’avanguardia per un’epoca in cui niente lasciava prevedere il futuro di un “unico suolo italiano”, di una sola etnia con usanze, costumi e religione identici, data la “ non compattezza all’interno dei singoli stati e le condizioni sociali impossibili”. Senza ombra di dubbio, in ogni caso, la “poesia” che il Manzoni prende in considerazione, è solo quella “utile moralmente e semanticamente”, con le sue basi di verità e con le forme che hanno il compito di coinvolgere il lettore. In tutti i suoi lavori, il poeta non si è mai allontanato da questo stile, perché, in fin dei conti, il “significato nascosto” in ognuna delle sue opere, è la “commiserazione della fragilità della miseria umana”, contrapposta alla “celebrazione della Divina Provvidenza”.
Autore Guerino Nisticó
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