Pubblicata in data : 10/5/2005
Il Manzoni fu così profondamente colpito dalla notizia della “morte cristiana” di Napoleone, diffusa dalla Gazzetta di Milano il 16 luglio 1821, che a Brusuglio, dove si trovava, in tre giorni ( 17-18-19 luglio)compose questo inno, che si diffuse subito ancora manoscritto, ma che fu stampato a Torino dall’editore Marietti nel 1823, in una raccolta di sue liriche: nel 1822 il Goethe ne aveva già pubblicata una traduzione in tedesco, in una rivista. Egli non aveva amato Napoleone,pur riconoscendo la forza del suo genio e l’importanza storica della sua personalità. Le proprie idee religiose e democratiche lo inclinavano, infatti, a “detestare l’orgoglio e l’ambizione sfrenata del dittatore”.
Lui stesso diceva: << Era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare,il maggior tattico,il più infaticabile conquistatore con la maggior qualità dell’uomo politico, il saper aspettare e il saper operare. La sua morte mi scosse, come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale; fui preso da smania di parlarne, e dovetti buttar giù quest’ode,l’unica che si può dire improvvisata in meno di tre giorni, ne vedevo i difetti, ma sentivo tale agitazione, e tale bisogno di uscirne, di metterla via, che la mandai al censore. Questi mi consiglio di non pubblicarla; ma dal suo stesso uffizio ne uscirono le prime copie a mano >>.
Quindi dalle parole stesse dell’autore apprendiamo che l’ode non fu ispirata da Napoleone come politico, ma dallo stupore e dallo sgomento che coglie l’uomo dinanzi al mistero della morte. E la morte riamane sempre il tema centrale del canto, dato che l’interesse del poeta non rivolto alle opere, alle guerre vinte o perdute, alle sconfitte o alle vittorie, o al trionfo di Napoleone: l’unica cosa per cui mostra interesse è il mistero dell’uomo, anche di chi “fu tanto grande da diventare arbitro dei destini di due secoli, quello illuministico e quello romantico, dinanzi alla morte, dinanzi al giudizio di Dio, e quindi non della storia degli uomini, i quali potrebbero anche giudicare vera gloria quella di Napoleone. Al Manzoni, pertanto, come abbiamo visto anche a lezione, interessa piuttosto il momento più disperato di Napoleone,quando è il grande vinto della Storia, perciò il suo è un “inno religioso a gloria a Dio”.
Napoleone era e rimaneva, per il Nostro, sempre un grande tiranno, ma appena egli scompare dalla vita, la sua figura umana si spoglia di ogni mito terreno e di ogni gloria. “Una somma di esperienze e di problemi irrisolti - sulla sua concezione della storia, sul potere, sulla violenza che esso comporta- i falliti movimenti rivoluzionari con il conseguente pessimismo che si avverte anche nell’Adelchi e in altre sue “liriche civili” di quel periodo, convergono in questa Ode, dove il conflitto tragico della storia consiste nel fatto che anche gli uomini che vorrebbero agire secondo giustizia, devono poi all’atto pratico della vita constatare che, anche a proprio danno, il ruolo stesso del potere non consente di attuare quella giustizia”.
Così, la meditazione centrale della poesia è tutta rivolta al “Potere”, che può essere visto da due diverse prospettive: una è quella politica, da cui gli uomini giudicano i loro simili sul piano della gloria terrena; l’altra è quella religiosa, in cui è Dio stesso a giudicare gli uomini e le loro azioni sul piano dell’eternità e della fede. E lo stesso Napoleone in punto di morte e nella disperazione ne avvertì il forte richiamo, salvandosi. Poiché il potere non può, seconda la concezione manzoniana, produrre che lutti e dolori, anche Napoleone vinto non può, qui, che apparire un miserabile, un infelice, un oppresso dai suoi stessi ricordi e dalla sua gloria infranta. E per il Manzoni il dolore è indizio della presenza di Dio. Ecco perché il “conflitto interiore del grande vinto della storia si risolve nell’esaltazione della Grazia divina che atterra e suscita, che affanna e consola; e così Napoleone diventa uno strumento della potenza divina, che volle del creator suo spirto più vasta ombra stampar”.
Il nucleo morale dell’Ode è quindi questo: la gloria di questo mondo, ed in particolar modo la gloria politica che riguarda l’uomo di potere che crede di combattere per una causa giusta, anche se si esprime nel modo più grande possibile proprio come fu nel caso di Napoleone, è, in realtà, <>, è nulla dinanzi alla giustizia di Dio. Lo stesso eroe, che pur poteva sembrare l’uomo per eccellenza, con tutte le sue qualità più alte di potenza e di virtù, “sparve dalla vita e dalla storia”, chiuse i suoi giorni nell’ozio forzato di Sant’Elena, << segno d’immensa invidia e di pietà profonda >> fra gli uomini. “Ma nel deserto della solitudine di Sant’Elena, quando disperava, come Carmagnola, come Adelchi, comprende la vanità ed il senso della vita terrena. Solo dalla morte si ridimensiona la stessa vita e per il suo dolore Napoleone viene consolato da Dio, disceso nel suo cuore per avviarlo alla gloria vera del cielo. Il tema della “Pentecoste” viene realizzato liricamente in Napoleone. Il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola,diventa allora i motivo centrale dell’ode,e non più Napoleone, semplice strumento di Dio”.
Questa concezione pessimistica sul potere ha offerto al Manzoni anche un’occasione per fare un’indagine psicologica e morale sulle ansie umane di “un Napoleone generale di guerre vinte o perdute, di speranze e delusioni, di premi che era follia soltanto il prevederli”. Ed in questa ricerca del cuore umano Manzoni è stato molto attento, offrendoci sempre il tutto secondo la sua poetica romantica ed il suo pessimismo cristiano, mostrando come alla fine l’eternità in pace con Dio è ben più valida di quella che egli riteneva ricercare nello scrivere le sue memorie.
La similitudine centrale ( vv. 61 – 68 ) è stata, nella storia della critica letteraria italiana, un passaggio quasi obbligato e sempre fertile di discussioni e di approfondimenti. Da alcuni è stata notata una diretta analogia con l’altra comparazione del coro in morte di Ermengarda ( vv. 61 -78 ) “Come rugiada al cespite”. Ma la differenza, come abbiamo visto anche a lezione, che balza direttamente ai nostri occhi di lettori, è che l’onda di Napoleone, metafora per indicare i ricordi della gloria passata che lo schiacciano, è già implicita nella sua “procellosa” gioia di un grande disegno politico, che era “follia sperare”.. l’immagine del mare in tempesta, già implicita in quel “procellosa”, ora torna come immagine ossessiva per indicare non più la “follia”, bensì la “disperazione”.
L’onda che schiaccia il “misero Napoleone”, però, evidenzia ancora nel suo naturale movimento, portandolo dal basso in alto, l’illusione di una possibile salvezza alla sua vista “pur dianzi” alta e tesa, alternando in quell’immagine << il ricordo che schiaccia al ricordo che illude >> , concludendo alla fine con il cumulo schiacciante dei ricordi, che ormai pesano come l’onda marina in modo definitivo sul suo capo.
Tutto questo drammatizza moltissimo l’analisi interiore dell’angoscia di Napoleone, se si riflette sul fatto che egli, nel momento in cui si accinge a scrivere le sue memorie, “sentendone eterne le pagine e stanca la sua mano”, le avverte anche come vane e prive di senso, “ricollegandosi alla medesima vanità illusoria dell’approdo” (alle prode remote invan) . “In questo circolo stilistico ben compatto, avrà ancor maggior senso risolutivo e lirico l’immagine degli eterni campi della Provvidenza Divina, in netta contrapposizione con le eterne pagine delle sue memorie, vane come la sua gloria terrena”. Nel coro di Ermengarda, invece, l’alterna vicenda, di quell’erba prima ristorata e poi inaridita, è risolta fuori della vita dalla “provvida sventura”, perché è proprio Ermengarda che ascende verso Dio, “santa del suo patir”, e non Dio a scendere verso di lei. Così, la “compattezza e la drammaticità” de “Il Cinque Maggio”, in senso stilistico, è anche indizio di una maggiore coerenza della “religiosità manzoniana”, che qui parla di “Provvidenza” e non di “Provvida sventura”.
Alcuni critici letterari, approfondendo alcuni studi su “Il Cinque Maggio”, hanno trovato delle corrispondenze e delle analogie con le famose “Orazioni funebri” de Bousset ed in particolar modo con “l’Orazione funebre per il principe di Condè”. “Legami che portano in causa non meno delle idee religiose che li informano, il linguaggio stesso dell’ode, in quanto ha di più ardito, di più abnorme rispetto alla tradizione del classicismo italiano”. Moltissimi altri hanno cercato di spiegare il contrasto tra la prima parte dell’ode, improntata da rievocazioni epico-storiche delle guerre napoleoniche, e la seconda, prevalentemente elegiaco-religiosa, in quanto << deriva dall’idea del Bossuet dei due momenti nei quali si manifesta la potenza di Dio: quello della storia, concepito come il grande teatro del mondo, e quello eterno, nel quale tutte le storie saranno abolite ed ogni gloria terrena non sarà che silenzio e tenebre >>.
Note:
METRICA: L’Ode si compone di diciotto strofe, ognuna di sei versi settenari ( sdrucciolo, piano, sdrucciolo, piano, sdrucciolo, tronco ). I settenari piani riamano tra loro ( “sospiro-spiro” ), il settenario tronco rima col tronco della strofa successiva ( “sta-verrà” ), i settenari sdruccioli non rimano, ed essendo anche i più numerosi contribuiscono ad accentuare il ritmo narrativo ed incalzante delle vicende napoleoniche.
Autore Guerino Nisticó
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