Pubblicata in data : 10/5/2005
Il Leopardi non ebbe la ventura di nascere a Milano, allora capitale della cultura più avanzata d’Italia e sede delle più ardite riforme illuministiche e napoleoniche, ed anche agli intellettuali più progressisti del tempo, per i quali il passaggio dall’Illuminismo al Romanticismo fu un fatto conseguente e progressivo di cultura. Recanati, invece, era un paese di una lontana e retrograda provincia dello Stato Pontificio, non certo aperto alle nuove istanze liberali europee, e Leopardi, sin da ragazzo, esperimentò tutti i limiti che quel “natio borgo selvaggio” comportava a lui studioso così eccezionale ed ansioso di fama e di gloria poetica.
La sua cultura all’inizio fu illuministica, materialistica e classicista-montiana, come, del resto, quella del Foscolo e del Manzoni. Ma, mentre l’educazione del Manzoni adolescente si matura e si sviluppa in una situazione familiare niente affatto oppressiva ed in un ambiente liberale, progressista come quello di Milano tra fine Settecento ed inizi Ottocento, quella del giovane Leopardi fu condizionata da un ambiente familiare retrivo e da una provincia chiusa al progresso della cultura contemporanea europea nel momento decisivo della crisi dell’Illuminismo e degli inizi del Romanticismo. La storia “dell’anima leopardiana”, quindi, sarebbe inconcepibile fuori dai limiti della biblioteca del padre e dell’ambiente oppressivo della sua casa. Infatti, senza quel tipo di ambiente, non sarebbe concepibile quell’atteggiamento di rottura e di aperta ribellione contro l’atmosfera stagnante e retriva della sua provincia e contro la sua stessa famiglia.
Mentre il Manzoni, vissuto e formatosi nel più aperto e riformistico ambiente italiano, partendo da un “iniziale giacobinismo”, man mano modera le sue posizioni, conciliando il classicismo pariniano e montiano con il suo cattolicesimo liberale in una “posizione centrista – borghese”, il Leopardi, “lungi dall’attenuare il suo primitivo slancio di ribellione di origine alfieriana” , col passar degli anni esaspera la sua posizione polemica nei riguardi dello stesso “moderato e generico progressismo dei romantici”, facendosi con la sua Opera “maestro di titanismo e di vittimismo romantico” alle generazioni future di tutto il Risorgimento nazionale.
Tale atteggiamento può spiegare la sua posizione di radicale e mal celata antipatia nei riguardi dei contemporanei, nonché la incomprensione che lo circondò finchè visse. Basti ricordare i “giudizi maligni” del Tommaseo, le reticenze del Manzoni, la condanna del Mazzini, e il limite stesso del suo più grande ammiratore, il De Sanctis, il quale lo giudicò grande poeta, a condizione, però, di scindere la “sua poesia dalla sua filosofia materialista”; poesia che germinava, secondo lui, dal dissidio tra la ragione ed il sentimento. Sicuramente a questo tipo di atteggiamento ostile dei contemporanei romantici verso il Leopardi avrà contribuito anche l’accento decisamente materialistico della sua filosofia e di tutto il suo pensiero.
Rimasto quasi sempre un “isolato”, anche quando cercava disperatamente amicizie ed affetti sinceri soffrì la tragica crisi della sua età in un’analisi tutta interiore. Infatti, la sua malinconia nasceva da una sua personale concezione della vita e del destino umano, maturatasi attraverso meditazioni ed esperienze che non sempre sono legate con la vita politica del suo tempo. Perciò, la storia della poesia e della cultura leopardiana si suol fare attraverso il suo epistolario e le sue opere letterarie al di fuori ed al di là di ogni legame con la vita politica e sociale del suo tempo.
Diversamente dal Foscolo e dal Manzoni, la sua personalità ha rapporti assai scarsi di consenso e/o di reazione con i fatti politici contemporanei. Infatti, “l’itinerario spirituale” del Leopardi non si svolge, come quello dei “suoi grandi contemporanei”, e cioè da un iniziale giacobinismo ad una concezione più pacata di armonia classica (es “Grazie”) o ad un moderato progresso borghese (es. “Promessi Sposi”); anzi, si può dire che l’ultimo Leopardi, e cioè quello della “Ginestra”, in molti punti concorde col c.d. “titanismo iniziale di Bruto” sia pure allargando il suo importante messaggio sociale e poetico in una visione più impegnata e romantica della vita. Il Leopardi rimase sempre ancorato a quella cultura materialistica del mondo, senza riuscire a superarla, costruendosi una fede, sia pure laica. La morte non sarà per lui né la giusta “dispensiera di gloria”, né la mano della Provvidenza divina, che ci porta fuori dal mondo con la speranza del cielo: “sarà soltanto e sempre l’abisso, orrido ed immenso, ove l’uomo, precipitando fatalmente ed inevitabilmente, oblia il tutto”. (nb: Bruto, uccidendosi, rinunzia pure al ricordo dei posteri, al conforto supremo della storia e della memoria umana).
La gloria, l’amore, la bellezza, l’eternità, la felicità, che per Foscolo costituivano elementi di una illusione che per lui era una fede nel vivere e nel lottare, per il Leopardi rimangono allo stato di pure e vaghe illusioni, promesse che ingannano i figli della natura esasperandone il dolore e la sofferenza. Ideologicamente il Leopardi riamane sul “pessimismo di Jacopo Ortis”. Anzi, diversamente da Jacopo, non ha neanche l’illusione che sul suo cadavere pianga e preghi una divina fanciulla, memore del suo amore, della sua virtù e della sua disperata infelicità.
A modo suo, anche il Leopardi è uno dei più rappresentativi poeti di quell’età di contraddizioni spirituali, politiche e ideologiche, che si chiama, come ben sappiamo, Romanticismo, anche “se fu incapace di staccarsi del tutto dai capisaldi della cultura illuministica e settecentesca”. Non essendo vissuto, come abbiamo già visto sopra, nell’ambiente riformistico e moderato di Milano, non riuscì a comprendere, almeno in un primo momento, quella c.d. concretezza morale, politica, patriottica, popolare, quell’entusiasmo positivo che arricchiva l’umanità di un Berchet, di un Manzoni, di un Mazzini; e pertanto del Romanticismo accoglieva soltanto quelle istanze che erano congeniali alla sua anima, cioè la “doglia universale, il titanismo, il vittimismo, la pietà, l’elegia”: tutti aspetti del patetico e dell’eroico, in cui meglio si esprimeva e si ritrovava il suo vero grande idealismo.
Ma … lo salvava da ogni esasperazione ed astrattezza, a cui lo portava la sua indole alfieriana, e dalla sua disperata solitudine, la sua grande e “solida cultura classica” che si fondava non solo sulla “poetica razionale settecentesca”, ma anche sulla letteratura diretta dei classici greci e latini (nb: ecco che ancora la biblioteca di “casa Leopardi” appare sempre più elemento condizionante della sua personalità ). In definitiva, il Leopardi fu classico per cultura e romantico per istinto o sentimento. Non avendo avuto una cultura prettamente romantica di base, “subì questa nuova poetica come anelito infinito, come depressione morale, come culto del patetico e dell’eroico, che istintivamente sentiva nella sua anima alfieriana”. La purezza, la limpidezza, il dominio della sua parola poetica, del suo linguaggio, sono, infatti, quelli della migliore “tradizione petrarchesca e tassesca”, arricchita anche dalla “lingua metastasiana”; e , soprattutto, sono indizi della sua grande genialità e della sua eccezionale sensibilità musicale.
Non è possibile rintracciare della poetica leopardiana una linea sistematica, sia perché Leopardi non fu un filosofo dell’estetica, sia perché non ci ha lasciato mai un trattato organico e definitivo su questo argomento. I documenti su cui si fonda questo tipo di interpretazione letteraria son pensieri sparsi qua e là nelle sue opere, dal 1816 al 1829, che man mano assumono maggiore chiarificazione, anche se non approdano mai ad una vera sistematicità. Leopardi fu sempre asistematico come pensatore, come esteta e come poeta. Non solo la sua poesia, ma anche il suo pensiero procede sempre per stati d’animo e per atteggiamenti sentimentali.
La prima manifestazione ufficiale delle sue idee si può considerare senz’altro, la lettera da lui inviata alla redazione della “Biblioteca italiana” nel 1816 in risposta all’articolo della Stael, che apriva in Italia la polemica classico-romantica. Il Nostro diciottenne scrittore, in quella famosa lettera, dimostrava subito la sua “univoca preparazione filosofica, il suo empirismo estetico di lettore di poesia antica”, tanto è vero che egli non aveva chiaro nella sua mente una vera e propria definizione, un concetto filosofico della poesia, bensì un ideale vago e generico di essa. Per il Leopardi il presupposto più valido sembra essere pertanto questo: <<…più un poeta è antico più è grande, in quanto meno è stato influenzato da modelli e da imitazioni…>>.
Questo, perché il vero poeta ubbidisce alla sua “scintilla celeste”, imitando direttamente la natura senza interferenze di altri poeti. “Gli antichi sentivano con animo casto la natura, noi moderni, invece, la sentiamo attraverso i poeti; essi non facevano uso di modelli o non ne avevano, noi moderni, invece, ne abbiamo e ce ne gioviamo cosicché: << …quasi tutti gli scritti nostri sono copie di latre copie, ed ecco perché il nostro terreno è fatto sterile e non produce più nulla di nuovo…>>. Soprattutto per questo motivo Leopardi esaltava il “poeta primitivo”, come quello che più aveva potuto obbedire al suo impulso naturale di poeta, a contatto diretto della natura e dei sentimenti umani. Il Nostro avvertiva anche l’impossibilità, allo stato attuale in cui il mondo allora si trovava, di scrivere versi senza aver letto; pertanto, egli esortava gli Italiani non ad imitare gli stranieri, come invece voleva la Stael, ma a leggere e meditare gli scritti dei grandi Greci, dei Latini e degli Italiani.
Nel 1818 il Leopardi scriveva il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” approfondendo ed ampliando il concetto del suo “misticismo naturalistico”. Infatti, tali sembrano le direttive predominanti: una mistica adorazione della natura << vera castissima leggiadrissima >> come fonte ispiratrice di “vera poesia”; ed una idillica concezione del “poeta primitivo”, che attinge direttamente alla natura ed al sentimento la sua ispirazione, senza modello alcuno. Ma questa volta, il “Discorso” pur nato in difesa dei classicisti e contro i romantici, finiva con l’essere in realtà una chiara polemica nei confronti del principio dell’imitazione, così caro ai classicisti, ed una “implicita accettazione” di certi aspetti del Romanticismo. In quel discorso Il Nostro chiariva innanzitutto a se stesso la sua poetica, “l’animus lirico” da cui poi nasceranno i suoi “Idilli”. Perciò, lo scritto, pur interessando da vicino la polemica classico romantica e, quindi, la storia dell’estetica ottocentesca e leopardiana in particolare, nacque da una ispirazione sentimentale e lirica, che prelude piuttosto alla poesia dei “Canti” che non ad un futuro trattato di estetica.
Il suo è un ideale umano, sentimentale di poesia, non una definizione concettuale della stessa. È la chiarificazione della sua poesia a se stesso, piuttosto che la dichiarazione oggettiva della poesia. L’esasperato individualismo leopardiano trionfò anche in questo discorso estetico. L’eredità e la suggestione alfieriana fu infatti più possente in Leopardi che nello stesso Foscolo: egli si riconoscerà, infatti, in “Bruto minore”. In realtà il Leopardi in quel discorso mostrava tutta la buona intenzione di voler difendere i suoi amici classicisti, e non si accorgeva che difendeva soprattutto la poetica dei suoi “Idilli”, il suo ideale poetico. Il “rinnegamento del canone di imitazione” colpiva, in fondo, più i suoi amici che i romantici.
L’ideale da lui esaltato è quindi quello del “classicismo primitivo” e cioè del classicismo inteso come fedele osservazione ed imitazione della natura. Concetto non certamente originale, come hanno ben messo in luce diversi critici letterari, ma derivato dall’estetica settecentesca, che il Leopardi assume un significato nuovo, un valore sentimentale, tutto leopardiano, che si tradurrà più tardi nei suoi famosi “canti” più belli. Il Nostro difende il mito del poeta primitivo del mondo classico, perché in fondo anche lui avrebbe voluto essere tale.
Infatti scrive: << Mi crederei il divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrarli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui (…) Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia la prepotente inclinazione la primitivo, dico in noi stessi, cioè negli uomini di questo tempo, in quei medesimi ai quali i romantici procurano di persuadere che la maniera antica e primitiva di poesia non faccia per loro >> Qui il Leopardi manifesta chiaramente la sua vocazione di poeta << delle ricordanze della prima età >> che sono appunto <>.
Il mito leopardiano del poeta primitivo, che sente i ricordi della fanciullezza e le sensazioni della natura, era da lui relegato nella civiltà antica, in Omero , in dante, ma in realtà era già un modo romantico di guardare l’antico. Perciò egli vuole essere, tra i moderni, poeta primitivo, e “s’accorge che invece di essere classicista, è assai più vicino al suo antagonista romantico”. Il classicismo leopardiano tende in verità a liberarsi dal peso della tradizione e a riprodurre con schiettezza e semplicità i sentimenti del poeta. Pertanto, “fu una scuola di chiarificazione e di semplificazione della parola poetica che si adegua immediatamente al sentire”. Tutto ciò si allontana dalla “freddezza compassata” dei suoi amici classicisti e rimane sempre fedele alla lezione alfieriana secondo cui << la poesia sta essenzialmente in un impeto, in un furore >>, come lui stesso poi scrive nello “Zibaldone”.
IL “Discorso” deve essere dunque considerato una vera e propria testimonianza delle sue contraddizioni e delle sue riflessioni sul valore divino della poesia, perché, in sostanza, “precorre l’ufficio di consolazione e di beatitudine” che per lui ha il canto poetico. Il punto, così, più propriamente leopardiano è, senza dubbio, nel fatto che egli pone in netta antitesi la poesia ed il vero, la natura e la ragione, il diletto e l’utile; mondo del poeta e mondo del filosofo: il primo ha cura del dilettoso, il secondo mira all’utile vero. Il poeta imita la natura e la riproduce con animo puro; la natura << non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti: ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima offeriva spontaneamente >>.
Perciò il poeta non ha il compito di ricevere il vero o l’utile, bensì il diletto “che nella poesia scaturisce dall’imitazione della natura”; mentre il filosofo, con la sua ragione, scopre il vero che la natura nasconde, e annullando le illusioni distrugge l’incanto della poesia e della natura. La cultura, la civiltà e la ragione sono quindi le cause della degenerazione della poesia, la quale ha il compito di illudere e dilettare, discostandosi il più possibile dal reale e dal vero. In questa chiarificazione egli, più che partecipare alla polemica classico-romantica dei suoi amici, precisava e se stesso il suo programma, il suo ideale estetico, che consisteva nella divina scintilla, nell’impeto creativo del sentimento, al di là di ogni meditazione filosofica o di ogni imitazione di modelli poetici. Un altro problema impegnava acutamente il Leopardi: la partecipazione del popolo alla comprensione della poesia. I romantici vogliono che il popolo “debba essere effettivamente uditore o lettore del poeta”, però d’altra parte “si sforzano di rendere la poesia quanto più possono astrusa e metafisica e sproporzionata alla intelligenza del volgo”.
Infatti, se il poeta si adegua al popolo, si possono avere tre soluzioni: 1) Che il poeta non illuda e non inganni mai, ed allora non è più poeta; 2) Che mentendo inganni gl’intellettuali del volgo “soppraricandolo di credenze vane e malvage”; 3) Che “inganni solamente le immaginative”
Consegue pertanto che, essendo valida l’ultima soluzione, << potendo il poeta ingannare le fantasie anche quando non s’attenga alle credenze e agli usi moderni >> , tanto per il popolo quanto per le persone colte, << andrebbero scelte quelle finzioni che dilettassero meglio, più o meno che ingannassero, stante ch’il fine della poesia non è l’ingannare ma il dilettare: l’inganno del poeta è un mezzo, capitalissimo certo, ma basta l’inganno dell’immaginazione, se non nessuno degl’intelligenti sarebbe dilettato dalla poesia, e quell’inganno che può stare col vero e proprio diletto poetico >>.
Con questo Il Nostro non voleva opporsi ai romantici, perché in fondo anche lui voleva la poesia “popolarissima” ma, semmai, al fatto che i romantici volevano una poesia “metafisica e ragionevole e dottissima e proporzionata al sapere dell’età nostra del quale il volgo partecipa poco o niente”. Da qui è evidente l’equivoco in cui cade Leopardi; egli confonde la condizione primitiva degli uomini con carattere popolare della poesia, l’adattarsi degli uomini alla natura e dalla naturalezza col Classicismo, la poesia con l’illusione, in realtà col Romanticismo, concludendo, in fondo, col significato romantico di poesia popolare. Ma il punto in cui egli vedeva esasperato il contrasto tra i romantici e i classicisti era nel fatto che strappare la poesia dal primitivo al moderno significava sviarla dal suo ufficio, spogliarla di quel sovrano diletto che è suo, tirarla dalla natura all’incivilimento.
Il Leopardi non si sentiva pertanto di rinunciare alla sua convinzione dell’arte come illusione, come diletto, come mito di natura; e pertanto attaccò a fondo il carattere civile e sociale della poesia romantica. Per lui la differenza principale tra classicisti e romantici consisteva nel fatto << che i nostri cantano in genere più che possono la natura, e i romantici più che possono l’incivilimento, quelli le cose e le forme e le bellezze eterne e immutabili, e questi le transitorie e mutabili, quelli le opere di Dio, e questi le opere degli uomini…>>”.
E se tale poesia ha potuto avere successo, egli ci spiega ciò con il fatto che i gusti sono stati corrotti: col progresso culturale degli uomini, che sempre più si sono allontanati dalla natura, con la rozzezza e durezza di molti cuori, e con la novità e la singolarità delle cose cantate dai romantici”. Proprio in queste parole il Nostro rivela come alla base del suo pensiero c’è sempre l’adorazione mistica della natura, l’ideale di una poetica che cercava di ritrovare quella purezza spirituale ed ingenua dei poeti primitivi che sapevano ritrarre la “vera e castissima e santissima e leggiadrissima natura” con divina semplicità e con un animo incontaminato da imitazioni letterarie. Una simile poetica, che vuole “attingere al mondo incontaminato della natura e della fanciullezza dell’uomo”, era tanto lontano dalla teoria dell’imitazione classica del Giordani, quanto da quella ufficiale e sofisticata dei romantici. (nb: era così “in nuce” la nuova poetica leopardiana / ciò segna il suo grande inizio ).
Nella seconda parte del suo “Discorso” il Leopardi affronta il tema capitale e per lui più affascinante: il “patetico”, il “sentimentale”, che i romantici così ardentemente esaltavano. Qui, infatti, il Leopardi riconosce << il nerbo delle forze nemiche…in questo differiscono capitalmente i poeti romantici e i nostri, che quelli che mirano al cuore e questi alla fantasia >>. Ma il sentimentale era stato cantato anche da Omero, come egli stesso incalza tra i suoi scritti, e da tutti i poeti classici. Infatti, non essendo mai mutata la natura dell’uomo, il palpito del cuore e l’impressione sentimentale non possono essere prerogativa esclusiva dei moderni romantici, anzi il sentimentale è un fatto eterno, immutabile della natura umana. Piuttosto, come sostengono anche diversi critici, tutto ciò va a scapito dei romantici in primis l’eccessiva analisi psicologica che essi vanno facendo al cuore umano. Per questa parte il Leopardi accetta il patetico ed il sentimentale dei romantici, anche se ne rigetta il modo ed il loro metodo analitico. Lo accetta come se esso non fosse una prerogativa romantica, ma umana , naturale. Perciò bandisce ogni affettazione e complicazione che i romantici hanno tentato di fare di questo elemento così suggestivo ed appassionante della poesia. Così, in definitiva, la sua polemica era indirizzata al “valore realistico - civile” della poesia romantica, mentre l’aspetto patetico e sentimentale veniva da lui accettato ed ammirato, sia pure in una “misura classica”.
Il Leopardi riprendeva successivamente il problema col maturarsi della sua cultura e della sua esperienza poetica. Nel 1819 sembra già più decisamente staccato dal gusto classicistico, ed in una forma molto più esplicita. Nel “Discorso” si era professato ammiratore dei classici, rivelandosi in realtà un “classicista ribelle”; ora si dichiara addirittura ostile al Parini ed al Monti, e basti ricordare i giudizi sul loro conto, definiti << poeti dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo >> o meglio ancora conviene ricordare la sua esplicita affermazione: << la poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo >>. Da questo momento in poi IL Nostro non polemizzerà più con la poetica romantica, ma cercherà di adattarla la suo “nuovo sentire poetico”. Infatti, in una pagina dello “Zibaldone” (1818) si nota un suo atteggiamento meno polemico verso tutti i Romantici. Anche in questo caso, il tema discusso è il “patetico”, che deve essere esercitato senza nessun artificio, bensì naturalmente, come facevano gli antichi poeti. Bisogna quindi non solo che il poeta imiti la natura , ma che << la imiti e dipinga con naturalezza >>.
Nel 1828 Leopardi rettifica il concetto precedente della “poesia imitazione della natura”. La poesia da questo momento in poi gli apparirà come vera e propria “espressione del sentimento”. Tutto ciò che è “vago”, tutto ciò che è “rimembranza” di un mondo lontano e quasi smarrito tra le cose inafferrabili, costituirà ora per Leopardi elemento vivo e vero di poesia sentimentale e romantica. Della nuova scuola poetica egli accentuerà soltanto questo nuovo grande elemento, escludendo quelli realistici e narrativi.
Nel 1820 l’adesione leopardiana al Romanticismo “patetico” è ancora più chiara; infatti egli stesso scriveva : << la poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima >>. E nel 183 continuava a dire <<..non è propria dè tempi nostri altra poesia che la malinconica…>>. Tutto ciò segna un momento importante nell’evoluzione poetica del Nostro e questa c.d. “adeguazione della poesia all’immediatezza del sentimento” fa di Leopardi il teorico del “puro lirismo romantico”, da cui poi i decadenti avranno molto da imparare. Il sentire per lui si adegua pertanto al cantare, costituendo con esso un momento solo e questa sarebbe la ragione per cui pose alle sue liriche il titolo insolito di “Canti”, quasi per mettere in luce questo “rapporto di immediatezza tra il sentire ed il cantare”.
Nel 1826 Leopardi poteva con tutta la massima consapevolezza critica enunciare la sua poetica sul concetto di poesia lirica, guida capace di farci intendere al meglio la poesia di tutti i suoi “Canti”. Il Nostro, infatti, distingue tre generi di poesia: 1) Il Lirico; 2) L’Epico; 3) Il Drammatico; ma assegna il primato al “lirico”, che è il più antico di tutti.
Egli intendeva la lirica come vero grande sfogo del cuore. Il che era apertamente un’adesione bella e buona alla “poetica romantica”, ma con un particolare sentimento religioso per l’arte, da lui intesa come una specie di beatitudine, che ci aiuta a vivere.
Così possiamo tranquillamente affermare che la “poetica leopardiana” parte dal classicismo settecentesco del Gravina, del Cesarotti, del Pindemonte, del Vico, oltre che al Monti. Attraverso la lezione alfieriana e foscoliana perviene poi alla concezione di un “primitivismo classico e preromantico” ed infine approda al più “puro romanticismo sentimentale e lirico”, creando una nuova lezione di poesia pura, che sarà assai feconda per tutti i poeti decadenti. Leopardi fu pertanto un grande innovatore anche della poetica romantica, in quanto la “rielaborava attraverso la sua non comune cultura classica ed il suo misticismo naturalistico”.
Quella del Leopardi è la “poetica del misticismo lirico”, inteso come “celebrazione del sentimento”, quale voce di natura immediata, impulso celeste e spontaneo. E nessuno meglio del Nostro Poeta ci ha lasciato la “chiave per penetrare nel mondo della sua lirica”, che è appunto “canto del sentimento e del cuore”. La poesia è considerata così dal Leopardi la “suprema religione dell’uomo, l’unico mezzo di consolazione al dolore, contemplazione che rasserena l’animo umano”. Il materialista e sensista leopardi trovava così conforto soltanto nel canto, che era respiro dell’anima, cioè unica “voce d’eterno e di rinascita”.
La poesia era “l’approdo più alto, la religione suprema della sua desolata esistenza”. Anche la sua poetica sembra nascere dal sentimento più che dalla sua ragione o dalla sua filosofia. ( Un grande critico sosteneva che in leopardi “la parola che canta il dolore non è più dolore”). In Leopardi c’è un assiduo e mutuo condizionamento tra riflessione e sentimento, tra filosofare e sentire, tra pensiero e poesia, tanto che sarebbe più giusto affermare che l’uno condiziona l’altra, tanta è la connessione tra cultura e sentimenti, tra pensiero ed affetto.
Si tratta di un “materialismo” di anime che si ribellano e che scoprono anche la “disarmonia” della nostra vita e della nostra esistenza, di contro di quella dell’universo ( c’è infatti nel Nostro una concezione meccanicistica dell’universo). Il Leopardi avverte questa grave disarmonia tra la vita dell’ordine universale della natura e la finalità dell’esistenza umana, e la definisce << mistero grande >> da non potersi spiegare << se non negando ogni verità o falsità assoluta >>. La scoperta di questa disarmonia coincide con la sua grande scoperta della spiritualità dell’uomo, di contro alla realtà meccanica e materialistica della natura proclamata dall’Illuminismo. L’uomo infatti, persegue finalità diverse da quelle delle materie; idealità che saranno anche illusioni, felicità, gloria, amore, libertà, ma che rivelano, d’altra parte, una vera spiritualità romantica, che in un cero senso ha superato le stesse “concezioni meccanicistiche”.
Però questa filosofia leopardiana della libertà, della creatività autonoma dello spirito di contro alla materia, non diviene nel Nostro salda base per la “edificazione di un sistema razionale e speculativo, bensì si ridimensiona sul piano morale e sentimentale, come espressione del cuore, come irrompente canto di vaghe illusioni” .
Come attraverso il materialismo scopre la sua spiritualità, la sua libertà morale e creativa, così, poi, attraverso l’infelicità dell’esperienza presente della sua vita Leopardi scopre la “felicità proiettata nell’illusione del futuro o nel ricordo vago ed idillico del passato”. Lo spirito è contro il tempo, in “una eternità che è illusione essa stessa, nella speranza, che è felicità ideale, che è idillio elegiaco di un sogno perduto”. E proprio in tutto ciò sta la sua “vitalità prometeica, il titanismo del suo pensiero” per cui << …Nobil natura è quella / ch’a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato…>>. Il Nostro accetta la miseria della vita, ma senza rinunciare alla grandezza ed all’eroicità del suo spirito. La grandezza dell’anima è pari alla sua infelicità, perché l’eccellenza delle anime importa anche maggior intensità ed acutezza di intelligenza, e quindi maggior << sentimento dell’infelicità propria >> che nasce da maggior desiderio di felicità, cui consegue maggiore scontentezza di esserne privi.
Sentire, pertanto, la propria infelicità e già segno di grandezza, è manifestazione della superiorità dello spirito che analizza il dolore e l’infelicità da una sfera superiore ( come possiamo notare ne “La Ginestra”) la sua filosofia vuole essere appunto “coscienza della miseria della vita”, come la sua poesia “superamento lirico di quella miseria”.
Scoperta la “virtù titanica dello spirito”, al di sopra del dolore e delle miserie del mondo e di tutte le delusioni subite, Leopardi scopre implicitamente anche “l’infinità” di esso. L’infinito sarà, quindi, sempre il paesaggio ideale della sua poesia, la “vocazione religiosa della sua anima che vuole assorbire in sé l’universo tutto col suo sentimento cosmico. Ecco perché egli scrisse in uno dei suoi più importanti pensieri: << La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccogliere, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alle capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che il desiderio nostro sarebbe ancora più grande (…); e sempre accusare d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana >>.
Questa risulta un’affermazione leopardiana molto importante e fondamentalmente chiarificatrice di quanto aveva intuito nell’idillio l’INFINITO. ”Per un momento pare che l’universo stesso sia creazione ed immagine del sentimento e dello spirito umano. Il Leopardi non aveva anima religiosa, perciò, osservando il dualismo tra le finalità della natura, che da una parte provvede alla conservazione del mondo, in un perpetuo circolo di produzione e distruzione, e le finalità dell’uomo, che cerca con ogni sforzo la felicità, non potendo concludere sull’immoralità dell’anima umana di contro alla materia, perveniva all’infinità dello spirito come la suprema idealità della sua ispirazione”. E così il Nostro, nelle vesti di Poeta, e non di Filosofo, cerca di creare delle illusioni infinite della sua stessa anima, in un “perenne atteggiamento contemplativo del cosmo e di miti della giovinezza, della felicità, della gloria”. ( da qui possiamo notare come il Leopardi filosofo della natura e del materialismo si risolvi poi nel famoso Leopardi poeta idillico e contemplativo del “taciti andar nel tempo”).
Infatti, soltanto se noi lo consideriamo da questo elevato punto di vista morale, il pensiero leopardiano sulla natura, sui fini dell’uomo, sul dolore, sull’infelicità umana, può acquistare una connotazione positiva. Il grande critico letterario DE SANCTIS intuiva questo importante e particolare carattere del pessimismo leopardiano, quando affermava che << quanto più il Leopardi mette in luce il deserto della vita tanto più ce la fa amare >>. Non possiamo pertanto definire il Leopardi uno scettico, perchè la ragione, secondo lui, non è impotente a conoscere, ma soltanto è causa dell’infelicità, che consegue alla scoperta del vero. Il “vero stesso è possibile conoscere, ma è infelicità il conoscerlo”. L’infelicità di Leopardi non nasce quindi per il fatto che l’uomo non può conoscere il vero, ma per il fatto che l’averlo conosciuto significa aver distrutto le illusioni del cuore e del sentimento. L’insoddisfazione dell’uomo nasce quindi dalla stessa illimitatezza del suo spirito, dalla grandezza della sua anima, di fronte al limite della materia.
Dire che la filosofia del Leopardi è pessimistica, e suddividere questo pessimismo in diverse fasi – cioè un momento in cui la natura sarebbe considerata come madre benigna che nasconde all’uomo l’orrido vero della vita ed in questo inganno lo illude facendolo felice, e un momento in cui l’incontentabilità stessa dell’uomo scopre che nel mondo tutto è dolore e la felicità non esiste e la natura, fonte di ogni cosa umana, è pur essa matrigna che delude l’uomo – tutto questo significa scoprire l’evoluzione del pessimismo del NOSTRO POETA, oppure rilevare il dissidio di molti suoi pensieri, il contrasto insanabile tra la sua mente ed il suo cuore. Tutto ciò, come ribadito fin dal principio, ci porta ad un’analisi non sistematica della sua filosofia dove << pensiero e sentimento, ma anche sentimento e sentimento spesso si contrastavano…>> e dove << tutti i sentimenti del Leopardi sono tutta una pura contraddizione >>. Si tratta però di una di quelle contraddizioni che non nascono da debolezza bensì dal travaglio di uno spirito che lotta e cerca incessantemente ed invano la ragione delle fondamentali assurdità della vita. E perciò quelle contraddizioni sono la vita stessa del poeta e del suo spirito e la fonte della sua grande ed immensa poesia.
Ogni pensiero, ogni operetta morale, ogni canto di Leopardi è sempre un “nuovo riproporsi dei medesimi problemi dell’esistenza e della vita”. Risulta sempre un “nuovo modo di ripresentare gli assurdi della vita, le contraddizioni tra le aspirazioni dell’uomo, che crede il mondo creato tutto per la sua felicità, e l’indifferenza marmorea della natura, il cui fine tende alla conservazione della vita cosmica”.
Quello del Leopardi più che “pessimismo” potrebbe essere definito “problematicismo”. Infatti, le scoperte che egli faceva circa la sua concezione pessimistica – “la vita intesa come infelicità, sventura, il non nascere migliore del nascere, la morte come cessazione del dolore, la vita senza finalità, ecc…” – non sono rivelazioni nuove nella storia del pensiero umano; e il Leopardi se ne rendeva sicuramente conto. Ma è sicuramente nuovo, e quindi tipicamente leopardiano, il modo e l’intensità appassionata, il dissidio interiore, con cui egli rivela le assurdità della vita.
Questi assurdi e queste contraddizioni della vita, vengono rivelati da Leopardi come dissidi dell’anima umana, come problemi del pensiero, che all’atto stesso in cui rivela questo mistero di contraddizioni tra la vita dell’uomo e quella dell’universo, ha la coscienza di sé come pensiero, che assorbe in sé tutto il cosmo : << …Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare.>>. Si tratta, come abbiamo visto bene, di un naufragio dell’animo nell’immensità dell’universo, ma in realtà un dominare, un contemplare questa infinità come qualcosa che è dentro di noi.
Così il “materialista e pessimista Leopardi” non si arrendeva, come un vinto, dinanzi al mistero cosmico, bensì riusciva a dare a questo immaginario mondo la voce della sua anima dominandolo o schernendolo. Perciò la “scoperta dell’infelicità umana non fa di Leopardi né un poeta né un pensatore pessimista, in quanto proprio quella scoperta implica la grandezza eroica e titanica dell’anima umana”. L’ideale supremo della sua filosofia fu così la ricerca della felicità umana, un mito perseguito soltanto dall’uomo, e non dalla natura.
Perciò in definitiva l’uomo era più grande della natura stessa, se osava proporsi finalità più grandi e più delle di quelle della natura stessa. Ma se la realtà della vita negava questa felicità all’uomo, non riusciva però ad annullare quest’altra felicità che era nel sogno dell’uomo stesso, proiettata nel futuro o nel passato. Perciò egli “cantò sempre i miti della felicità, dell’amore, della giovinezza, della gloria, della virtù, anche se apparentemente sembrava rimpiangerli come pure illusioni. Lo stesso stato primitivo di una natura benigna e felice è un mito della sua mente, come l’altro della natura maligna che scopre l’orrido vero”. La natura benigna, così, non avrebbe mai potuto dare, secondo la concezione del Nostro, l’infelicità mentre la natura matrigna, rendendo l’uomo sempre infelice, non ha potuto negare la grandezza e l’infinità dello spirito.
Leopardi credeva molto al “mito dell’eroismo e della grandezza dell’uomo” e per lui l’infelicità era considerata come una vera e propria “aureola dell’eroe, l’illusione di una grandezza che ci aiutava a vivere ed a morire da eroi”. Il “pessimismo leopardiano” , quindi, ridimensionandosi nella voce del sentimento, era diventato “titanismo morale”. “Titanismo del vinto che fa della propria infelicità il piedistallo della grandezza eroica della sua protesta contro la natura, e la stessa base dell’unica soluzione possibile: la solidarietà dei vinti e degli infelici”.
Autore Guerino Nisticó
|