Pubblicata in data : 10/5/2005
La data più probabile di questo idillio si può fissare nella primavera del 1820, se si tiene conto delle corrispondenze del Nostro con le lettere al Giordani del 06 Marzo e del 24 Aprile del 1820. In quest’ultima il Leopardi scriveva all’amico: <>. Erano gli anni in cui, dopo la famosa crisi del 1819, al c.d. “linguaggio del vago” si alternava quello del vero e del negativo, sotto l’influsso della poesia preromantica di Monti, di Ossian, di Werher, dell’Ortis.
Alla genesi di questo canto ha contribuito sicuramente una serie complessa di circostanze e di situazioni, nello stesso tempo documentabili e misteriose, dove, come si può notare, la “contaminatio” del suo canto deluso e della sua concezione dolorosa della vita, con la rievocazione di fatti storici, denuncia una tecnica scoperta già precedentemente da altre canzoni importanti come ad es. “Alla luna”. Infatti qui il modo stilistico del vago prevale su quello ardito, forse più per un più “disteso sentire”. La critica è stata, almeno in passato, quasi sempre unanime nel distinguere due motivi poetici in questo canto: <> ( questo l’importante pensiero critico del Flora ).
Secondo alcuni critici quest’ultimo criterio di lettura della poesia leopardiana risulta una “valutazione arbitraria dove la fugacità della storia antica, il tema dell’Impero romano scomparso nel silenzio assoluto, non è causa di disperata elegia, bensì testimonianza reale del tempo che porta via ogni umano accidente, che assimila il destino del singolo uomo disperato a quello di interi popoli felici”.
Pertanto, l’unico vero grande motivo lirico di questo Canto leopardiano è: la caducità delle cose umane, l’elegia del tempo che porta via ogni umano accidente, la gloria dei popoli antichi come il disperato dolore di ogni uomo infelice, anche se di lui permane sempre il ricordo a rendere presente lo strazio e le sofferenze della scomparsa. Siamo in qualche modo ancora “nell’aura dei Sepolcri foscoliani, in cui il tempo traveste le reliquie della terra e del cielo”. E il tema della notte lunare altro non è che la proiezione dello stato d’animo del poeta, che in quella quiete lunare ha intuito come “tutto il mondo passa e quasi orma non lascia”. <>.
Questa poesia ha una struttura stilistica e metrica dove prevale fortemente il c.d. “modo stilistico del vago e dell’ardito” del Leopardi e l’endecasillabo sciolto si presta benissimo a questo modo di poetare intensamente sofferto e meditato che raggiunge una certa serenità spirituale, almeno come si nota nell’apertura così solenne della notte romantica. Una ricerca linguistica ci consente di individuare ancora un lessico prevalentemente improntato alle parole “vaghe e indefinite” che lasciano ampia suggestione nel lettore e nell’ascoltatore: “dolce e chiara, senza vento, queta, posa la luna, tace ogni sentiero, rara, notturna lampa, dormi, agevol sonno, chete stanze, cielo benigno, antica natura onnipossente, solitario canto, tarda notte, pace e silenzio, tutto posa il mondo, morire a poco a poco”. Si tratta di una scelta lessicale che prevale nella prima e e ultima parte del canto, quasi ad evidenziare meglio “l’equilibrio psicologico e contemplativo della prima parte e quello meditativo della seconda”.
La parte centrale è, invece, “screziata” da modi di dire del c.d. “stile ardito”, in cui meglio si concretizza la scoperta del vero e il dramma di questa sofferta esperienza: “a te le speme nego, mi fece all’affanno, non io, non già, quanto a viver mi resti, mi getto e grido e fremo, Oh giorni orrendi, il grido de’ nostri avi famosi”. In queste espressioni violente e forti sembra ancora di leggere i passi drammatici di un’altra canzone leopardiane “Ad Angelo Mai” e tutti quei momenti di “tragica presenza del nulla, della squallida presenza della morte, il cui tema è sempre presente nella fantasia lirica del poeta”. Il raccordo lirico tra i due mondi è qui offerto dalla parte conclusiva del canto, che se non raggiunge, come sostengono alcuni critici, la serenità dell’Infinito, certamente è riuscito a contemplare come passaggio di silenzio e di pace quella mesta meditazione sulla vanità, sul nulla verso cui tendono gli affetti e le cose più belle e alte degli uomini, senza eliminare del tutto quel contrasto iniziale tra la calma e indifferente natura e l’angoscia ossessiva del poeta che piange sul deserto delle umane speranze.
“Qui il mare dell’Infinito si è dilatato ed è diventato oceano : una immensità che insieme alla terra assorbe e inghiottisce quell’evocato passato né lo restituisce né ne restituisce il fremito come nell’Infinito. Per cui l’affetto, quel moto di confidenza, e di riscatto, verso la prima età è dal poeta messo a conclusione dell’idillio a fare da diapason ad un incomprensibile svanire del tutto in un infinito che non risponde più, né libera dai troppo presenti fantasmi del suo pensiero”.
Scendendo nel particolare:
“…Nella mia prima età, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un Canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core…”
Note:
Come possiamo ben notare qui Leopardi passa dalla considerazione generale, dei versi precedenti, a quella di un ricordo personale, dato che il destino di tutti gli uomini si riflette sempre nel destino individuale. Il Poeta coglie tutta la carica umana di questo trapasso nella sua intima coscienza. Da questo momento l’io del poeta emerge in tutta la sua drammaticità di una lunga esperienza sofferta fin dalla lontana fanciullezza. E così, con il ricordo riemerge anche il dolore, nel confronto tra l’angoscia inconsapevole dl fanciullo e la piena coscienza dell’adulto sull’inesorabilità del destino umano che condanna ogni cosa a morire nel tempo.
Ora il “raccordo semantico” tra le varie parti del canto viene raggiunto con una connotazione, ancor più che malinconica e desolata intimamente: “alla tarda notte”, che congiunge insieme in una unica carrellata di immagini il paesaggio lunare, la tarda notte dell’artigian e questa tarda notte, che non è più connotazione lirica di un paesaggio, bensì la “tarda notte” del fanciullo a cui il canto che svaniva “lontanando poco a poco” per i sentieri “similmente stringeva il core”. Anche il raccordo tra i due verbi : “mi stringeva il core” del v. 28, in cui si scopre la consapevolezza di un dolore antico, e “mi stringeva il core” dell’ultimo verso, in cui si ricorda la medesima angoscia inconsapevole, crea ancor più una “drammatica ambivalenza semantica”, simile a quella di “una sinfonia in cui nella conclusione i motivi qua e là accennati vengono tutti quanti ripresi in una sintesi lirica, che ne accentua il dolore ma anche il fascino lirico, moltiplicandone i sensi e le immagini in risonanze misteriose del lettore”.
Autore Guerino Nisticó
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